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		PARADISO - CANTO XVIII 
		 Interpretazione cabalistica di Franca 
		Vascellari
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		Già si godeva solo del suo verboquello specchio beato, e io 
		gustava
 lo mio, temprando col dolce l’acerbo; 
		3
 
 e 
		quella donna ch’a Dio mi menava
 disse: «Muta pensier; pensa 
		ch’i’ sono
 presso a colui ch’ogne torto 
		disgrava». 6
 Già Cacciaguida, specchiandosi nella Luce divina, sta tornando 
		alla beata contemplazione, godendo del suo pensiero e Dante pure sta 
		gustando i suoi pensieri, temperando quelli gradevoli con quelli 
		dolorosi, quando Beatrice, colei che lo conduce al Signore, gli dice: 
		“Pensa ad altro; io sono vicino a Colui che ripara le ingiustizie”.
 
		
		  
		
		Beatrice, 
		l’intuizione, allorchè la personalità, Dante, pure in un momento di 
		esperienza altamente spirituale sta per essere ripresa dai pensieri 
		contrastanti 
		dolci 
		e acerbi 
		della vita terrena, che lo farebbero calare di piano abbassando la sua 
		vibrazione, cerca in ogni modo di trattenerlo nelle ‘alte sfere’ 
		ricordandogli la sua vicinanza con l’Altissimo.Io mi rivolsi a l’amoroso suono
 del mio conforto; e qual io 
		allor vidi
 ne li occhi santi amor, qui 
		l’abbandono: 9
 
 non 
		perch’ io pur del mio parlar diffidi,
 ma per la mente che non può 
		redire
 sovra sé tanto, s’altri non la guidi. 
		12
 Allora Dante a quelle parole di 
		conforto si volge verso di lei, ma non ci descrive l’amore che vede nei 
		suoi occhi e non solo perché diffida delle parole, ma per il limite 
		della mente che non può giungere a tanta altezza (spirituale) se non è 
		guidata.
 
		
		  
		
		Guardare negli occhi l’intuizione e 
		mantenere lì l’attenzione significa rimanere concentrati nel centro 
		Daatico, esperienza che non potrà mai essere descritta a parole. I pochi 
		mistici che ci hanno provato hanno finito col dire tutto e col non dire 
		nulla (cfr. ‘Il Castello interiore’ di s. Teresa d’Avila, 1515-1582,: v. 
		in 
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		copioni la ns/ 
		riduzione teatrale e relativo commento cabalistico e ‘Le strofe composte 
		dopo un’estasi’ di s. Giovanni della Croce, 1542-1591, di cui riportiamo 
		la prima: Non capivo dove entravo,/ però quando lì mi vidi,/ non sapendo 
		dove stavo,/ cose eccelse molto intesi;/ non dirò quel che sentii,/ ché 
		rimasi non sapendo,/ ogni scienza trascendendo.), tuttavia quel ‘nulla’ 
		può forse servire a farci intuire qualcosa...Tanto poss’ io di quel punto 
		ridire,
 che, rimirando lei, lo mio affetto
 libero fu da ogne altro 
		disire, 15
 
 fin 
		che ’l piacere etterno, che diretto
 raggiava in Bëatrice, dal 
		bel viso
 mi contentava col secondo aspetto. 18
 Di quello che prova egli 
		può solo ridire che, guardandola, non ha più alcun desiderio, perché la 
		Bellezza eterna che emana dal suo viso lo appaga del tutto, anche se 
		indiretta.
 Vincendo me col lume d’un 
		sorriso,
 ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
 ché non pur ne’ miei occhi è 
		paradiso». 21
 
 Come si vede qui alcuna volta
 l’affetto ne la vista, 
		s’elli è tanto,
 che da lui sia tutta l’anima 
		tolta, 24
 
 così nel fiammeggiar del folgór santo,
 a ch’io mi volsi, conobbi la 
		voglia
 in lui di ragionarmi ancora alquanto. 
		27
 Inondandolo con la luce di un sorriso 
		ella gli dice: “Voltati e ascolta, il Paradiso non è solo nei miei 
		occhi”. Come talvolta (sulla terra) il sentimento, quando ricolma tutto 
		l’animo, si mostra nel volto, così nel fiammeggiare della santa luce di 
		Cacciaguida, il Nostro comprende il suo desiderio di parlare ancora.
 
		
		  
		
		Seguendo le indicazioni della sua 
		intuizione, il Nostro torna a concentrarsi sul suo ‘avo’ Cacciaguida, a 
		cui nei canti precedenti avevamo attribuito il Chockmah del Geburah del 
		piano Atzilutico, ed ecco che nella sua luce egli può conoscere le altre 
		Sephiroth dello stesso ‘cielo’ di Marte.El cominciò: «In questa 
		quinta soglia
 de l’albero che vive de la cima
 e frutta sempre e mai non 
		perde foglia, 30
 
 spiriti son beati, che giù, prima
 che venissero al ciel, fuor 
		di gran voce,
 sì ch’ogne musa ne sarebbe opima. 33
 
 Però mira ne’ corni de la croce:
 quello ch’io nomerò, lì farà 
		l’atto
 che fa in nube il suo foco veloce». 
		36
 E comincia a dire: “In questo quinto 
		cielo (di Marte, del Paradiso) in cui l’Albero riceve direttamente dal 
		Signore il suo nutrimento e non spoglia mai e dà sempre frutto, ci sono 
		degli spiriti beati che ancor prima di giungere qui, anche nel mondo 
		ebbero gran fama, tanta da poter colmare ogni ispirazione poetica. 
		Guarda ora i bracci della Croce: i beati che io nominerò lampeggieranno 
		come fulmini in una nuvola”.
 
		
		  
		
		Cacciaguida (= 
		la Guida alla caccia dell’Oro filosofico) spiega alla personalità che 
		l’Albero del Geburah di Atziluth, essendo parte dell’Albero del Piano 
		Spirituale, riceve direttamente la sua luce dal Signore e, poiché non 
		conosce la ‘caduta’, 
		
		frutta sempre e 
		
		non perde foglia; 
		in esso vengono resi beati e conservati gli spiriti marziani che sulla 
		terra hanno operato con potenza e coraggio. Ora nominandoli, Dante li 
		potrà ‘conoscere’, cioè vedere come 
		foco 
		veloce in una nuvola.
		
		Io 
		vidi per la croce un lume tratto
 dal nomar Iosuè, com’ el si 
		feo;
 né mi fu noto il dir prima che ’l 
		fatto. 39
 
 E 
		al nome de l’alto Macabeo
 vidi moversi un altro 
		roteando,
 e letizia era ferza del paleo. 42
 Ed 
		ecco che al nome di 
		Iosuè 
		(= Giosuè = il Salvatore; il collaboratore di Mosé che condusse gli 
		Israeliti in Terrasanta circa nel 1250 a. C.; relativo a Daath) 
		immediatamente una luce brilla sulla Croce; e al nome di 
		
		Macabeo 
		(= dall’ebraico ‘maqqabath’ = martello; Giuda Maccabeo che nel 165 a. C. 
		liberò gli Ebrei da Antioco Epifane, re di Siria; relativo a Geburah), 
		un’altra rotea, e la sua gioia appare come la sferza che fa girare il
		paleo 
		(dal greco ‘pal-lein’ = vibrare; una trottola).
 Così per Carlo Magno e per 
		Orlando
 due ne seguì lo mio attento sguardo,
 com’ occhio segue suo falcon 
		volando. 45
 
 Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
 e ’l duca Gottifredi la mia 
		vista
 per quella croce, e Ruberto 
		Guiscardo. 48
 Quindi lo 
		sguardo attento di Dante, come un occhio che segue il volo del suo 
		falcone, vede poi brillare le luci di 
		Carlo 
		Magno (= re grande e 
		forte; fondò il Sacro Romano Impero nel 799; relativo a Chesed) e di
		
		Orlando 
		(= glorioso; paladino di Carlo Magno; relativo a Hod). E ancora su 
		quella Croce egli vede guizzare le luci di 
		
		Guiglielmo (= protetto 
		dalla volontà; duca d’Orange morto nell’812, famoso per le sue imprese 
		contro i Saraceni; relativo a Geburah); e di 
		Rinoardo 
		(= che domina col consiglio; eroico guerriero convertito dal duca 
		d’Orange; ancora relativo a Geburah); e il duca 
		Gottifredi 
		(= pace divina; Goffredo di Buglione; conquistò 
		Gerusalemme nella prima crociata nel 1099; relativo a Daath); e 
		
		Ruberto Guiscardo 
		(= il glorioso astuto; divenne vassallo del papa Nicolò II e negli anni 
		1060-1072 liberò l’Italia meridionale dai Saraceni; relativo a Hod).
 
		
		  
		
		Possiamo far corrispondere i vari 
		personaggi ricordati in questi versi a qualità marziane dantesche 
		acquisite nel passato (o nelle sue vite precedenti); esse sono ‘doti’ 
		che corrispondono ai suoi ‘talenti’ ( cfr. nel vangelo di Matteo cap. 
		25, 14 e ss. e ns/ interpretazione cabalistica in 
		
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		Testi sacri), quelli che gli sono stati concessi nella sua incarnazione 
		e di cui dovrà rendere conto alla fine della vita.Indi, tra l’altre luci mota 
		e mista,
 mostrommi l’alma che m’avea parlato
 qual era tra i cantor del 
		cielo artista. 51
 
 Io 
		mi rivolsi dal mio destro lato
 per vedere in Beatrice il 
		mio dovere,
 o per parlare o per atto, segnato; 54
 
		
		e vidi le sue luci tanto mere,
 tanto gioconde, che la sua 
		sembianza
 vinceva li altri e l’ultimo solere. 
		57
 Poi muovendosi e 
		mescolandosi alle altre luci lo spirito di Cacciaguida mostra a Dante le 
		sue qualità di artista tra i cantori celesti. Questi allora si rivolge a 
		destra verso Beatrice 
		per istruzioni e vede i suoi occhi così 
		meri 
		(da radice indoeuropea ‘mar’ = splendenti), così beati, da superare 
		anche l’ultimo splendore.
 E come, per sentir più 
		dilettanza
 bene operando, l’uom di giorno in 
		giorno
 s’accorge che la sua virtute avanza, 
		60
 
 sì 
		m’accors’ io che ’l mio girare intorno
 col cielo insieme avea 
		cresciuto l’arco,
 veggendo quel miracol più 
		addorno. 63
 E come, sentendo maggior gioia 
		per aver bene operato, l’uomo si avvede di migliorare giorno dopo 
		giorno, così Dante si accorge di trovarsi in un cielo più vasto dalla 
		maggior bellezza di Beatrice.
 
		
		  
		
		La conoscenza o meglio il ricordo dei 
		‘grandi spiriti’ del cielo di Marte fa risplendere ancora di più 
		l’intuizione di Dante (la sua Beatrice) ed ecco che avviene il passaggio 
		al cielo successivo.E qual è ’l trasmutare in 
		picciol varco
 di tempo in bianca donna, quando ’l 
		volto
 suo si discarchi di vergogna il 
		carco, 66
 
 tal 
		fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
 per lo candor de la temprata 
		stella
 sesta, che dentro a sé m’avea 
		ricolto. 69
 E come rapidamente torna pallido 
		il colore del volto di una donna arrossita per la vergogna, la stesso 
		mutamento avviene nei suoi occhi quando viene colpito dal candore della 
		sesta stella che lo accoglie.
 
		
		  
		
		Dante è giunto nel sesto cielo, il 
		cielo di Giove, che corrisponde nella Kabbalah alla Sephirah Chesed, la 
		Giustizia temperata dalla Grazia. Essa è situata al centro del pilastro 
		di destra, della Grazia, è chiamata l’Intelligenza Coesiva o Ricettiva, 
		perché contiene tutti i Santi Poteri; è l’essenza della bontà, la sua 
		espressione centrale è l’amore, la sua natura è fluida; stimola la 
		generosità e il superamento dell’io egoico, è chiamata anche Gedulah (= 
		Grandezza); la visione spirituale che le compete è la Visione 
		dell’Amore. Le sue virtù: l’obbedienza e il retto comando. I suoi 
		simboli sono: il cubo, la piramide, la croce greca, lo scettro ecc.. Il 
		Nome divino a lei attribuito è :El.Io vidi in quella giovïal 
		facella
 lo sfavillar de l’amor che lì era
 segnare a li occhi miei 
		nostra favella. 72
 
 E 
		come augelli surti di rivera,
 quasi congratulando a lor 
		pasture,
 fanno di sé or tonda or altra 
		schiera, 75
 
 sì 
		dentro ai lumi sante creature
 volitando cantavano, e 
		faciensi
 or D, or I, or L in sue figure. 78
 Nello sfavillìo 
		giovïale 
		(di Giove = splendore del cielo) Dante vede quegli amorevoli fulgori 
		tracciare lettere dell’alfabeto. E come gli uccelli sorti dalla riva di 
		un ruscello, quasi a gioire del loro pasto, si dispongono in cerchio o 
		in altro disegno, così i santi spiriti di quelle luci cantando e volando 
		formano o una D o una I o una L.
 
		
		  
		
		‘D, I, L,’ sono ovviamente le prime 
		tre lettere della parola ‘Diligite’ che significa ‘scegliete di amare’, 
		ma sono qui particolarmente messe in evidenza; esse corrispondo a tre 
		Archetipi o sentieri della Kabbalah: la lettera D all’Archetipo n. 4, 
		‘l’Imperatore’ o ‘la Pietra cubica’, Archetipo del diritto, della 
		realizzazione, della volontà incrollabile, della potenza; la lettera I 
		all’Archetipo n. 10 ‘la ruota della Fortuna’, Archetipo della sagacia, 
		della mutevolezza, dell’adattamento, del divenire; la lettera L 
		all’Archetipo n. 12 ‘il Sacrificio’, Archetipo del disinteresse, della 
		filantropia, del dono di sé. ‘Scegliere di amare’ implica la profonda 
		conoscenza di questi tre Archetipi e la loro attuazione e compimento.
		
		Prima, cantando, a sua nota moviensi;
 poi, diventando l’un di 
		questi segni,
 un poco s’arrestavano e taciensi. 81
 
 O 
		diva Pegasëa che li ’ngegni
 fai glorïosi e rendili 
		longevi,
 ed essi teco le cittadi e ’ regni, 84
 
 illustrami di te, sì ch’io rilevi
 le lor figure com’ io l’ho 
		concette:
 paia tua possa in questi versi brevi! 
		87
 Prima cantando 
		si muovono a tempo, poi diventando lettera, si arrestano e tacciono. 
		(Ora Dante invoca Polinnia): ‘O Musa (Pegasëa, 
		perché Pegaso, il cavallo alato, aprì con lo zoccolo la fonte del 
		Parnaso, monte sacro ad Apollo, Dioniso e alla Muse) che rendi gli 
		ingegni gloriosi e duraturi, ed essi con te rendono famose le città e i 
		regni, fecondami di te così che possa con questi versi brevi mostrare le 
		loro figure così come le ho in mente!’
 Mostrarsi dunque in cinque 
		volte sette
 vocali e consonanti; e io notai
 le parti sì, come mi parver 
		dette. 90
 
 ’DILIGITE IUSTITIAM’, primai
 fur verbo e nome di tutto ’l 
		dipinto;
 ’QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai. 
		93
 
 Poscia ne l’emme del vocabol quinto
 rimasero ordinate; sì che 
		Giove
 pareva argento lì d’oro distinto. 96
 Dunque appaiono 5x7 (= 35) figure tra vocali e consonanti e Dante le 
		ricorda così come vengono raffigurate: ecco l’inizio: 
		’DILIGITE IUSTITIAM’ 
		(= Amate la Giustizia) e la fine: 
		’QUI 
		IUDICATIS TERRAM’ (o 
		voi che governate la terra) e poi le luci dei beati rimangono sulla M 
		della quinta parola, così che 
		Giove 
		sembra d’argento ornato d’oro.
 
		
		  
		
		 Vengono 
		qui offerti altri due numeri che nel loro prodotto compongono 
		l’esortazione dei beati a governare la terra (Malkuth, il Regno) con 
		Giustizia: il 5 e il 7. Il 5 corrisponde all’Archetipo dell’Iniziato, 
		simbolo di autorità morale, di generosità indulgente, di perdono; e il 7 
		all’Archetipo del Carro, simbolo di successo, di diplomazia di 
		conciliazione degli antagonismi; infine viene illuminata in modo 
		particolare la lettera M, che corrisponde all’Archetipo n. 13, della 
		Morte, Archetipo del distacco, dell’approfondimento intellettuale, della 
		saggezza metafisica (v. in 
		
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		copioni ‘Archetipi’ 
		le relative Lezioni-spettacolo). Oro e Argento, sono i ‘metalli’ (in 
		senso alchemico) attribuiti alle due colonne dell’Albero; allorché Giove 
		splende di entrambi manifesta la sua perfezione. 
		E vidi scendere altre luci 
		dove
 era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
 cantando, credo, il ben ch’a 
		sé le move. 99
 
 Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
 surgono innumerabili 
		faville,
 onde li stolti sogliono agurarsi, 102
 
 resurger parver quindi più di mille
 luci e salir, qual assai e 
		qual poco,
 sì come ’l sol che l’accende 
		sortille; 105
 
 e 
		quïetata ciascuna in suo loco,
 la testa e ’l collo 
		d’un’aguglia vidi
 rappresentare a quel 
		distinto foco. 108
 Dante vede poi scendere 
		altre luci sulla sommità della M e crede di udirle cantare (un inno) al 
		Signore, il Bene che le attrae a Sé. E come quando si scuotono dei 
		ciocchi ardenti e si formano tante scintille, da cui gli stolti traggono 
		presagi, ecco che egli nota ancora luci salire, alcune più luminose, 
		altre meno, dipendendo dal loro grado di beatitudine; quando alla fine 
		si fermano al posto giusto, appare, formata da quei fuochi, la figura di 
		un’aquila, (l’Emme ha preso la forma dell’aquila imperiale).
 
		
		  
		
		Abbiamo altre volte fatto riferimento 
		alla simbologia dell’aquila, qui in particolare la trasformazione della 
		M in aquila sembra voler indicare la via che attraverso il Rinnovamento 
		(M = Morte ad uno stato, rinascita in un altro) conduce alla 
		resurrezione interiore, a ciò che l’aquila rappresenta: la potenza 
		celeste solare e spirituale, la maestà, l’autorità, l’ascesa, la 
		vittoria, il coraggio, la rigenerazione ecc..Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
 ma esso guida, e da lui si 
		rammenta
 quella virtù ch’è forma per li nidi. 
		111
 
 L’altra bëatitudo, che contenta
 pareva prima d’ingigliarsi a 
		l’emme,
 con poco moto seguitò la ’mprenta. 
		114
 
 O 
		dolce stella, quali e quante gemme
 mi dimostraro che nostra 
		giustizia
 effetto sia del ciel che tu ingemme! 
		117
 Colui che 
		dipinge in cielo non è guidato, ma è Lui il Maestro e da Lui proviene 
		quella Virtù che impronta gli uomini nelle loro dimore. Gli altri beati 
		che prima formavano la M con piccolo movimento si adattano alla (nuova) 
		figura. Poi Dante
		si rivolge direttamente 
		a Giove dicendogli: ‘O dolce astro, quali e quante gemme dimostrano che 
		la giustizia terrena deriva dal cielo in cui tu risplendi!...’
 Per ch’io prego la mente in 
		che s’inizia
 tuo moto e tua virtute, che rimiri
 ond’ esce il fummo che ’l 
		tuo raggio vizia; 120
 
 sì 
		ch’un’altra fïata omai s’adiri
 del comperare e vender 
		dentro al templo
 che si murò di segni e di 
		martìri. 123
 
 
 
		
		O milizia del ciel cu’ io contemplo,adora per color che sono in 
		terra
 tutti svïati dietro al malo essemplo! 
		126
 ‘... Io prego la Mente (Cristo) da 
		cui procede il tuo movimento e la tua virtù affinché ponga la sua 
		attenzione là dove esce il fumo che offusca la tua luce, cosicché Egli 
		si adiri un’altra volta (cfr. vangelo di Matteo 21, 12-13 e relativa 
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		Testi sacri) per il commercio che si fa nel tempio (nella Curia Romana) 
		costruita sui miracoli e sui martiri. O milizia celeste che io 
		contemplo, prega per tutti coloro che in terra sono traviati da tale 
		cattivo esempio.’
 Già si solea con le spade 
		far guerra;
 ma or si fa togliendo or qui or quivi
 lo pan che ’l pïo Padre a 
		nessun serra. 129
 
 Ma 
		tu che sol per cancellare scrivi,
 pensa che Pietro e Paulo, 
		che moriro
 per la vigna che guasti, ancor son 
		vivi. 132
 
 Ben 
		puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro
 sì a colui che volle viver 
		solo
 e che per salti fu tratto al martiro, 
		135
 
 ch’io non conosco il pescator né Polo».
 
		
		‘...Una volta si 
		faceva guerra con la spada, ma ora la si fa affamando le persone, 
		togliendo loro il pane che il Padre celeste non nega a nessuno. E tu 
		(Dante si rivolge al papa Giovanni XXII, che lanciava scomuniche per 
		toglierle dietro compenso di denaro) che scrivi solo per cancellare, 
		pensa che gli apostoli Pietro e Paolo, che morirono martiri per la vigna 
		che tu mandi in malora, sono ancora vivi. Ma tu puoi ben dire: “Io sono 
		devoto solo a colui che fu eremita e morì per la danza di Salomè (cfr. 
		vangelo di Matteo 14, 3-11, Giovanni il Battista; ma Dante si riferisce 
		alla sua immagine impressa sulle monete di Firenze) e non conosco né il 
		pescatore (Pietro), né 
		Polo 
		(Paolo)!”...’.   
		
		  
		
		Invano Beatrice (l’intuizione) ha cercato di trattenere il 
		pensiero del Nostro (della personalità) ancorato alla visione delle cose 
		divine (vv. 5-6), ma ecco che invece, di nuovo, egli, sceso da Cielo in 
		terra, torna a condannare la ‘Curia Romana’ e il ‘papa’ e il loro 
		‘barattare’; d’altronde finché siamo vivi, la nostra terra continua ad 
		essere sempre governata dal ‘principe del mondo’ fino a che il nostro 
		Cristo interiore non risorge e non ascende al cielo; è quindi ‘giusto’ 
		per il Discepolo sul Sentiero condannare quella parte di sé che pure 
		conoscendo benissimo i propri ‘Pietro e Paolo’(gli Apostoli del Cristo, 
		l’Io Sono, Daath), li disconosce a vantaggio dei ‘Battisti’ che 
		battezzano, non con l’acqua, ma con-tanti ‘liquidi’ contanti ... |