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		PARADISO - CANTO XXI 
        
		  Interpretazione cabalistica di Franca 
		Vascellari 
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		Già eran li occhi miei rifissi al 
		volto 
		de la mia donna, e l’animo con essi, 
		e da ogne altro intento 
		s’era tolto. 3 
		 E 
		quella non ridea; ma «S’io ridessi», 
		mi cominciò, «tu ti faresti 
		quale 
		fu Semelè quando di cener fessi: 6 
		 ché 
		la bellezza mia, che per le scale 
		de l’etterno palazzo più 
		s’accende, 
		com’ hai veduto, quanto più si sale, 
		9 
		 se 
		non si temperasse, tanto splende, 
		che ’l tuo mortal podere, al 
		suo fulgore, 
		sarebbe fronda che trono scoscende. 
		12 
		
		Appena l’aquila ha terminato di 
		parlare Dante volge gli occhi a Beatrice, tralasciando ogni altro 
		interesse. Ma la sua Donna non gli sorride come al solito, e dice: “Se 
		ti mostrassi tutta la mia beatitudine tu faresti la fine di 
		Semele (= da termine frigio ‘Semelo’ = dea Terra) 
		perché la mia bellezza cresce man mano che ascendiamo nei cieli più 
		alti; se io non velassi il mio fulgore, la tua umanità (il tuo corpo) 
		diverrebbe come un fronda colpita dal fulmine...”  
		 
		  
		
		Semele 
		(= terra), figlia di Cadmo e di Ermione, fu amata da Zeus e concepì 
		Dioniso; la gelosa Era, travestita, la convinse a chiedere al dio di 
		mostrarsi a lei in tutto il suo splendore: fu incenerita dalla visione. 
		Beatrice e questo mito ci insegnano che dobbiamo accontentarci di 
		ricevere quella ‘corrente’, quell’energia (fisica, astro-mentale o 
		spirituale) che la nostra ‘terrestrità’ può sopportare, perché una 
		potenza superiore alla nostra portata farebbe saltare le nostre 
		‘valvole’, provocando ‘ustioni’ nei vari piani... Ma il mito ha un 
		seguito: il figlio Dioniso, nato prematuramente tra le fiamme, fu 
		salvato dal Padre e divenne un dio; adulto, si recò nell’Ade e recuperò 
		la madre, che fu accolta nell’Olimpo come dea, col nome di Tione che 
		significa ‘l’Esaltata’. Questa seconda parte del mito ci insegna pure 
		che se la ‘terra’, fecondata dal ‘Padre degli dei’, ha concepito il 
		Figlio, sarà lui a salvare la madre. Ma è sicuramente un modo poco 
		ortodosso e assai doloroso per giungere all’‘Esaltazione’, conviene 
		quindi a tutti e a Dante (= il Discepolo che persevera) in particolare, 
		che Beatrice 
		non rida 
		troppo e non mostri la sua beatitudine tutta insieme. 
		
		
		Noi sem levati al settimo splendore, 
		che sotto ’l petto del Leone 
		ardente 
		raggia mo misto giù del suo valore. 
		15 
		 
		Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, 
		e fa di quelli specchi a la 
		figura 
		che ’n questo specchio ti sarà 
		parvente». 18 
		
		“... 
		Noi ci siamo 
		innalzati al settimo cielo (di Saturno, dove si trovano i beati spiriti 
		contemplanti) che in questo momento è in congiunzione con il segno del 
		Leone. Guarda dunque con attenzione e fa da specchio a ciò che ti 
		apparirà qui riflesso”.   
		  
		L’accenno alla congiunzione di Saturno, 
		dagli influssi ‘freddi’, con il segno del Leone dal ‘calore ardente’, 
		viene considerato dai vari commentatori come una necessità di Dante di 
		contemperare la vita contemplativa (fredda) con quella attiva (calda), 
		in una sorta di ‘conciliazione degli opposti’; interpretazione assai 
		valida, infatti Pier Damiani, il personaggio che lui incontra in questo 
		cielo, oltre ad essere un eremita dedito alla contemplazione (freddo), 
		ha lasciato numerose opere in cui condanna la corruzione del mondo e la 
		decadenza degli ordini religiosi con grande spirito combattivo (caldo).
		  
		
		
		Qual savesse qual era la pastura 
		del viso mio ne l’aspetto 
		beato 
		quand’ io mi trasmutai ad altra cura, 
		21 
		 
		conoscerebbe quanto m’era a grato 
		ubidire a la mia celeste 
		scorta, 
		contrapesando l’un con l’altro lato. 
		24 
		
		Chi comprende la pienezza di felicità 
		che prova Dante nella visione dell’amata, capisce anche quanto, nel 
		paragone delle due cose, gli sia gradito ubbidirle. 
		Dentro al cristallo che ’l 
		vocabol porta, 
		cerchiando il mondo, del suo caro 
		duce 
		sotto cui giacque ogne malizia morta, 
		27 
		 di 
		color d’oro in che raggio traluce 
		vid’ io uno scaleo eretto in 
		suso 
		tanto, che nol seguiva la mia luce. 
		30 
		
		 
		 
		
		
		Vidi anche per li gradi scender giuso 
		tanti splendor, ch’io pensai 
		ch’ogne lume 
		che par nel ciel, quindi fosse 
		diffuso. 33 
		
		Nella sfera cristallina che porta il nome di quel dio (Saturno) 
		nel cui regno (era il tempo dell’età dell’oro) non esisteva (ancora) la 
		malizia umana, il Nostro vede, in un raggio di luce dorata, una scala 
		che sale a perdita d’occhio. E vede anche scendere tante di quelle luci 
		da fargli pensare che lì si siano radunate tutte le stelle del cielo.
		  
		
		  
		Allorché la 
		personalità (Dante) obbedisce gioiosamente alla sua intuizione 
		(Beatrice) nel centro Daatico (situato nel mezzo delle sopracciglia, che 
		è il Malkuth dell’Albero del Piano Spirituale) scende una scala di luce 
		dorata la cui cima si perde nell’infinito. L’esperienza della visione 
		infinita della luce di Daath può essere descritta solo con un’immagine 
		infinita, quella delle stelle del cielo. Ma come riuscire a descrivere 
		la Grazia che scaturisce dal centro dell’Io Sono? 
		 
		
		E come, per lo natural costume, 
		le pole insieme, al 
		cominciar del giorno, 
		si movono a scaldar le 
		fredde piume; 36 
		 poi 
		altre vanno via sanza ritorno, 
		altre rivolgon sé onde son 
		mosse, 
		e altre roteando fan soggiorno; 39 
		 tal 
		modo parve me che quivi fosse 
		in quello sfavillar che 
		’nsieme venne, 
		sì come in certo grado si percosse. 
		42 
		E come, per istinto, le 
		pole 
		all’alba si muovono insieme per scaldarsi, poi alcune vanno e non 
		tornano, altre vanno e tornano, altre ancora restano dove sono, 
		ruotando, così a Dante appare il luccichio di quelle luci giunte ad un 
		certo gradino. 
		  
		Il paragone 
		con le pole
		(cornacchie) non ci è parso tanto paradisiaco, 
		perché le pole, 
		in dialetto veneto, sono proprio le taccole o cornacchie; qualche 
		commentatore ha cercato trasformarle in colombe e ha visto in esse e nei 
		loro diversi movimenti l’allusione ai vari tipi di gruppi monastici come 
		per es. i cenobiti, gli eremiti, i girovaghi ecc., tuttavia la loro 
		super attività nel Luogo della Contemplazione resta sempre un tentativo 
		di conciliazione degli opposti, in sintonia col ‘Saturno in congiunzione 
		col Leone’ dei vv. 13-15. 
		 
		E quel che presso più ci si 
		ritenne, 
		si fé sì chiaro, ch’io dicea 
		pensando: 
		’Io veggio ben l’amor che tu 
		m’accenne. 45 
		 Ma 
		quella ond’ io aspetto il come e ’l quando 
		del dire e del tacer, si 
		sta; ond’ io, 
		contra ’l disio, fo ben ch’io non 
		dimando’. 48 
		 
		 
		
		
		Per ch’ella, che vedëa il tacer mio 
		nel veder di colui che tutto 
		vede, 
		mi disse: «Solvi il tuo caldo disio». 
		51 
		
		Poi una di loro, la più vicina a lui, 
		diventa tanto luminosa da fargli pensare che gli sta mostrando il suo 
		amore. Ma poiché Quella da cui si aspetta le direttive tace, pur 
		desiderando porre una domanda, non lo fa. Allora (Beatrice) che vede il 
		suo silenzio con la Vista che tutto vede, gli dice: “esaudisci il tuo 
		desiderio”. 
		E io incominciai: «La mia 
		mercede 
		non mi fa degno de la tua risposta; 
		ma per colei che ’l chieder 
		mi concede, 54 
		 
		vita beata che ti stai nascosta 
		dentro a la tua letizia, 
		fammi nota 
		la cagion che sì presso mi t’ha 
		posta; 57 
		 e 
		dì perché si tace in questa rota 
		la dolce sinfonia di 
		paradiso, 
		che giù per l’altre suona sì divota». 
		60 
		Allora Dante così comincia a dire: 
		“Il mio merito non è degno di risposta, ma per colei che mi concede di 
		parlare, o essere beato nascosto dalla luce della tua beatitudine, fammi 
		conoscere il motivo del tuo avvicinamento; e dimmi anche perché qui non 
		si ode la celestiale musica piena di devozione che si ode negli altri 
		cieli”. 
		
		  
		Ottenuto il 
		permesso di parlare il Nostro chiede alla luce che gli si è avvicinata 
		il perché 
		della sua discesa e 
		anche perché lì, a differenza degli altri cieli, i canti celestiali 
		tacciano. Tali domande sono pleonastiche. In realtà egli sa benissimo 
		che quella Luce gli viene incontro proprio per rispondere alle sue 
		domande e quelle domande, che contengono già le risposte, sono formulate 
		per poterci passare i suoi insegnamenti; inoltre egli sa benissimo che 
		il Silenzio (esteriore ed interiore) è il presupposto per la 
		Contemplazione. 
		«Tu hai l’udir mortal sì 
		come il viso», 
		rispuose a me; «onde qui non si canta 
		per quel che Bëatrice non ha 
		riso. 63 
		 Giù 
		per li gradi de la scala santa 
		discesi tanto sol per farti 
		festa 
		col dire e con la luce che mi 
		ammanta; 66 
		 né 
		più amor mi fece esser più presta, 
		ché più e tanto amor quinci 
		sù ferve, 
		sì come il fiammeggiar ti manifesta. 
		69 
		
		 
		 
		
		
		Ma l’alta carità, che ci fa serve 
		pronte al consiglio che ’l 
		mondo governa, 
		sorteggia qui sì come tu osserve». 72 
		
		
		Ed ecco la risposta: “Tu hai l’udito, 
		come la vista, di un mortale, e qui si tace per lo stesso motivo per cui
		
		 Bëatrice
		non ha riso (non ti ha mostrato 
		completamente la sua beatitudine); sono sceso giù per i gradini di 
		questa santa scala solo per accoglierti con le mie parole e la mia luce; 
		non è il mio amore maggiore di quello degli altri beati, qui ve ne sono 
		di uguali a me e di più risplendenti, come vedi dal loro fiammeggiare. 
		Ma la sublime Carità che ci pone a servizio, ci rende disposti ad 
		ubbidire a Chi governa il mondo, secondo i nostri compiti, come puoi 
		osservare qui...”   
		  
		La parola 
		chiave di questi versi ci sembra quel 
		sorteggia riferito all’alta 
		carità: è affrontato qui in modo nuovo il tema 
		della predestinazione e quindi del libero arbitrio. La parola 
		sorte 
		deriva dal latino ‘serere’ = legare; gli antichi indovini 
		lanciavano in aria dei piccoli legni, legati da una corda, che cadendo 
		formavano il disegno da interpretare. La ‘sorte’ può essere omologata al 
		destino (= Fato, Moira) che non dipende dalla creatura né dalla volontà 
		degli dei, ma da una Legge Superiore inconoscibile; i compiti della 
		creatura (beata e non) vengono stabiliti dall’Amore divino secondo un 
		disegno che deve essere da essa accettato solo per amore. Il suo libero 
		arbitrio consiste proprio nell’aderire liberamente e umilmente alla Sua 
		Volontà. 
		«Io veggio ben», diss’ io, 
		«sacra lucerna, 
		come libero amore in questa 
		corte 
		basta a seguir la provedenza etterna; 
		75 
		 ma 
		questo è quel ch’a cerner mi par forte, 
		perché predestinata fosti 
		sola 
		a questo officio tra le tue 
		consorte». 78 
		E Dante: “Io comprendo bene o 
		santa luce, che è il libero amore che in questo regno fa seguire la 
		Volontà divina; ma quello che non capisco è perché proprio tu sei 
		destinata a questo compito”. 
		Né venni prima a l’ultima 
		parola, 
		che del suo mezzo fece il lume 
		centro, 
		girando sé come veloce mola; 81 
		 poi 
		rispuose l’amor che v’era dentro: 
		«Luce divina sopra me 
		s’appunta, 
		penetrando per questa in ch’io 
		m’inventro, 84 
		 la 
		cui virtù, col mio veder congiunta, 
		mi leva sopra me tanto, 
		ch’i’ veggio 
		la somma essenza de la quale è munta. 
		87 
		Egli non ha terminato di parlare che 
		subito quella luce fa perno sul suo centro ruotando veloce come una 
		macina, poi piena d’amore risponde: “ Sopra di me si concentra una Luce 
		divina che penetra questa in cui mi nascondo, la sua Virtù m’innalza 
		tanto che io posso vedere il Principio da cui deriva...” 
		  
		La 
		personalità non è soddisfatta della spiegazione e insiste per sapere 
		perché ‘quella’ Luce e non un’altra scende dal cielo in una certa 
		situazione, cioè perché alcuni piuttosto che altri sono predestinati a 
		svolgere determinati compiti, e quindi perché alcuni sono privilegiati 
		ed altri no. La risposta della Luce è una risposta di Luce. Nel momento 
		dell’incarico, se così si può dire, una Grazia scende sul predestinato e 
		in quello stato di Grazia egli conosce, nell’unità col suo Principio, la 
		Sua Volontà. 
		Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio; 
		per ch’a la vista mia, 
		quant’ ella è chiara, 
		la chiarità de la fiamma 
		pareggio. 90 
		 Ma 
		quell’ alma nel ciel che più si schiara, 
		quel serafin che ’n Dio più 
		l’occhio ha fisso, 
		a la dimanda tua non 
		satisfara, 93 
		 
		però che sì s’innoltra ne lo abisso 
		de l’etterno statuto quel 
		che chiedi, 
		che da ogne creata vista è scisso. 96 
		“...Da Lui deriva la 
		felicità che mi fa risplendere ed io m’illumino della stessa Luce che 
		ricevo. Ma neanche l’anima di chi è il più illuminato, neanche il 
		Serafino più vicino al Signore potrebbe rispondere alla tua domanda, 
		perché essa entra nella sfera dell’Abisso eterno che non è comprensibile 
		alla creatura...”   
		  
		Come detto 
		altre volte, noi siamo convinti che, se si crede che il percorso 
		evolutivo di un’anima si svolga in una sola incarnazione e quindi con 
		una sola possibilità di reintegrazione, il Disegno divino sia, dal punto 
		di vista umano, davvero incomprensibile per le enormi palesi ingiustizie 
		che si possono scorgere su tutti i piani: ad alcuni viene elargito tanto 
		e ad altri poco o niente sia sul fisico che sull’astrale e sul mentale, 
		e anche sul piano spirituale. 
		 Diventa 
		invece tutto molto più comprensibile con la teoria delle molteplici 
		nascite o reincarnazioni e con la vita intesa come scuola a più livelli 
		per arrivare allo sviluppo della Coscienza Cristica. Con tale teoria 
		(accettata da molte filosofie e religioni) si amplia l’orizzonte delle 
		possibilità umane e anche i concetti di predestinazione e di libero 
		arbitrio diventano molto più semplici e logici, e non meri atti di 
		fede... Ma forse c’è un modo per conciliare queste due teorie opposte, è 
		la similitudine con il tedoforo. Il compito del tedoforo è quello di 
		trasportare la ‘Luce’ da un posto ad un altro in un lavoro di squadra; 
		gli può toccare un percorso facile o difficile; può conoscere la natura 
		del percorso oppure no; può conoscere gli altri tedofori oppure no. 
		Crede in una sola incarnazione chi preferisce concentrarsi solo sul suo 
		compito, crede nelle molteplici incarnazioni chi vuole avere un punto di 
		vista più ampio, e cerca di conoscere i percorsi e i compagni di 
		squadra. Ma la sostanza non cambia: l’impegno del tedoforo a portare 
		avanti la Luce deve essere totale, allora il percorso diventa facile e 
		reintegrativo. 
		E al mondo mortal, quando tu 
		riedi, 
		questo rapporta, sì che non presumma 
		a tanto segno più mover li 
		piedi. 99 
		 La 
		mente, che qui luce, in terra fumma; 
		onde riguarda come può là 
		giùe 
		quel che non pote perché ’l ciel 
		l’assumma». 102 
		“...E quando tornerai al 
		mondo dei mortali, questo riferisci, cosicché nessuno più 
		presumma 
		(osi) tanto. La mente che qui brilla, in terra è oscurata, 
		giudica dunque tu come sia possibile lì quello che non è possibile 
		neanche qui”. 
		  
		Noi non 
		vorremmo presummere 
		tanto, ma forse ‘osiamo’ farlo perché non rischiamo il rogo per 
		eresia... 
		Sì mi prescrisser le parole sue, 
		ch’io lasciai la quistione e 
		mi ritrassi 
		a dimandarla umilmente chi fue. 105 
		 
		«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi, 
		e non molto distanti a la 
		tua patria, 
		tanto che ’ troni assai suonan più 
		bassi, 108 
		 e 
		fanno un gibbo che si chiama Catria, 
		di sotto al quale è 
		consecrato un ermo, 
		che suole esser disposto a 
		sola latria». 111 
		Le parole del beato sono 
		così autorevoli che Dante tralascia la questione e umilmente gli chiede 
		solamente chi sia. “Tra i due mari d’Italia, non molto lontano da 
		Firenze sorgono delle cime tanto alte che i tuoni risuonano più in 
		basso, esse formano un monte che si chiama 
		Catria 
		(dal greco ‘katharos’ = puro), sotto di esso è consacrato un eremo (di 
		Fonte Avellana) destinato solo alla 
		latria 
		(dal greco ‘latreia’ = culto), alla contemplazione”. 
		Così ricominciommi il terzo sermo; 
		e poi, continüando, disse: 
		«Quivi 
		al servigio di Dio mi fe’ sì fermo, 
		114 
		 che 
		pur con cibi di liquor d’ulivi 
		lievemente passava caldi e 
		geli, 
		contento ne’ pensier contemplativi. 
		117 
		 
		Render solea quel chiostro a questi cieli 
		fertilemente; e ora è fatto 
		vano, 
		sì che tosto convien che si riveli. 
		120 
		Così ricomincia a parlare per la 
		terza volta quel beato dicendo: “Lì divenni costante nel servizio del 
		Signore; vi passai estati e inverni nutrendomi solo di cibi (vegetali) 
		conditi con olio, immerso nei pensieri contemplativi. Quel chiostro 
		produceva per il cielo molti devoti eremiti, ora è diventato sterile e 
		ciò va reso noto...” 
		In quel loco fu' io Pietro 
		Damiano, 
		e Pietro Peccator fu' ne la casa 
		di Nostra Donna in sul lito 
		adriano. 123 
		“...Lì, (nel chiostro di Fonte 
		Avellana) fui Pietro (= la pietra) 
		Damiano 
		(= domatore; 1007-1072) e nella casa di s. Maria (in Porto presso 
		Ravenna) sul lido adriatico, fui 
		Pietro Peccatore 
		(= che inciampa; dopo essere stato cardinale Pietro Damiani tornò in 
		convento, ma non fu lui, ma Pietro degli Onesti che si firmava anche 
		come Pietro Peccatore, a fondare quel monastero di s. Maria). 
		  
		  
		Ora noi 
		finalmente abbiamo saputo chi è la Luce che qui ammaestra il Discepolo 
		sul Sentiero: è 
		Pietro Damiano. Entriamo dunque nel significato del 
		nome: Pier Damiani, specchiatura del cielo di Saturno dantesco, vuol 
		dire ‘la pietra che domina’, quindi questa Luce viene ad essere la 
		‘pietra d’angolo’ o ‘testata d’angolo’ dell’Albero di questo cielo. La 
		pietra angolare, detta anche ‘chiave di volta’, è quella pietra a forma 
		di cuneo che chiude il vertice di un arco e serve a scaricare il peso 
		retto dall’arco sui pilastri laterali, fu inventata dagli Etruschi e i 
		Romani hanno costruito con questa tecnica muraria acquedotti, ponti, 
		anfiteatri ecc.. In Atti degli Apostoli 4, 11, s. Pietro, citando il 
		Salmo 117, 22 e Matteo 21, 42, dice del Cristo: ‘Questo Gesù è la Pietra 
		che, scartata da voi costruttori, (perché non l’avete riconosciuta) è 
		diventata testata d’angolo’. Pier Damiani (Pietra dominante, Pietra 
		d’angolo) è quindi relativo alla Sephirah Daath. 
		Saturno, il settimo 
		cielo che ora accoglie Dante corrisponde nella Kabbalah pure alla 
		Sephirah Daath che letteralmente significa ‘Conoscenza’ o meglio 
		‘Conoscenza della Coscienza’. Daath è chiamata anche la Sephirah occulta 
		perché tale resta fino a che non si producono le adatte condizioni che 
		la portano dallo stato potenziale a quello manifesto e realizzativo; la 
		sua posizione sull’Albero è nella colonna centrale dell’Equilibrio, 
		sopra Tiphereth (Bellezza) e sotto Kether (Corona); media gli influssi 
		dei Superni Chockmah (Saggezza), detto anche il Padre Supremo (Abba) e 
		Binah (Comprensione) detto anche la Madre Suprema (Ama); Daath è dunque 
		il Figlio, il Cristo, l’Io Sono, Colui che conosce Se Stesso, nella 
		prima Specchiatura di Kether (la Corona). Daath è anche il ‘Luogo’ della 
		Contemplazione, dell’età dell’Oro, del Silenzio che 
		corrisponde al giorno 
		del riposo, il giorno della settimana dedicato a Saturno, al 
		rinnovamento spirituale, cioè al Sabato, allo Shabbat. Lo Shabbat è la 
		più importante delle festività ebraiche, viene celebrato ogni settima 
		per adempiere al precetto biblico di Esodo 20, 8-11: ‘Ricordati del 
		giorno del sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni 
		tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tu 
		non farai alcun lavoro... perché in sei giorni il Signore ha fatto il 
		cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il 
		giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo 
		ha dichiarato sacro’.   
		
		(Per 
		l’interpretazione cabalistica dei giorni della creazione v. in 
		
		
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		testi sacri ns/ 
		‘Commento alla Genesi’ capp. 1-2) 
		Poca vita mortal m’era 
		rimasa, 
		quando fui chiesto e tratto a quel 
		cappello, 
		che pur di male in peggio si 
		travasa.126  
		 
		Venne Cefàs e venne il gran vasello 
		de lo Spirito Santo, magri e 
		scalzi, 
		prendendo il cibo da qualunque 
		ostello. 129 
		Avevo ancora poco da vivere 
		quando fui nominato cardinale, carica che oggi sta andando di male in 
		peggio. Cefas 
		(s. Pietro) e il vaso dello Spirito Santo (s. Paolo) erano poveri e 
		sobri, e ricevevano il cibo per carità...”  
		 
		
		
		Or voglion quinci e quindi chi 
		rincalzi 
		li moderni pastori e chi li meni, 
		tanto son gravi, e chi di 
		rietro li alzi. 132 
		 
		Cuopron d’i manti loro i palafreni, 
		sì che due bestie van sott’ 
		una pelle: 
		oh pazïenza che tanto sostieni!». 135 
		
		
		I cardinali di oggi, per quanto sono 
		grassi, vogliono essere sostenuti di qua e di là e vogliono anche che 
		qualcuno tenga loro lo strascico. Ricoprono se stessi e la loro 
		cavalcatura con un grande mantello, così ci sono due bestie sotto il 
		drappo. Oh Pazienza divina che sopporti tanto!” 
		A questa voce vid’ io più fiammelle
		 
		di grado in grado scendere e 
		girarsi, 
		e ogne giro le facea più belle. 138 
		 
		Dintorno a questa vennero e fermarsi, 
		e fero un grido di sì alto 
		suono, 
		che non potrebbe qui assomigliarsi; 
		141 
		 né 
		io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono. 
		 
		A queste parole Dante vede tante altre 
		luci scendere (la scala) di gradino in gradino, ruotando e divenendo più 
		luminose ad ogni giro. Poi le vede fermarsi intorno a Pier Damiani, ed 
		erompere un altissimo grido, indescrivibile: infatti non lo ode, ma ne è 
		vinto (inebriato).   
		  
		Dopo aver 
		lanciato un’ennesima invettiva contro i religiosi corrotti, vanitosi e 
		materialisti, riafferrato dall’esperienza spirituale, il Nostro la 
		conclude con un 
		grido altissimo, non udibile, con un suono non 
		suono, in cui si realizza la Daatica Saturnina ‘Coniunctio Oppositorum’. 
		  
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