PARADISO - CANTO IX

 
Interpretazione cabalistica di Franca Vascellari
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Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni
che ricever dovea la sua semenza;
 3

ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
sì ch’io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni.
 6
Il Nostro si rivolge ora a Clemenza (= la magnanimità; moglie di Carlo Martello) parlandole del marito che dopo i chiarimenti (narrati nel canto precedente) sui buoni influssi degli astri responsabili delle attitudini degli uomini, che dovrebbero da loro essere secondate (e non lo sono), gli ha poi predetto i dispiaceri che dovranno subire i suoi discendenti (Roberto, il fratello di Carlo Martello, usurperà nel 1309 la corona al nipote), ha pregato però di non riferirlo; ma di dire tuttavia che la loro sofferenza verrà giustamente vendicata.
E già la vita di quel lume santo
rivolta s’era al Sol che la rïempie
come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.
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Ahi anime ingannate e fatture empie,
che da sì fatto ben torcete i cuori,
drizzando in vanità le vostre tempie!
 12
Intanto lo spirito di Carlo Martello si è già rivolto verso quel Sole, il Signore, che è Bene inesauribile per ogni cosa. E pensare che ci sono anime malvagie ed empie che allontanano i loro cuori da tale Bene, volgendosi invece a ciò che è vano!

Avevamo attribuito a Carlo Martello (= il forte che batte = il cuore) il Tiphereth (Bellezza, Sole) dell’Albero di Netzach; ora a Clemenza, la magnanimità, la sua controparte femminile, Dante predice (‘si’ predice)  sofferenza nella semenza, ma anche giusta vendetta: egli sa bene che il ‘figlio’ della Bellezza e della Magnanimità (la sua arte poetica), in un mondo governato da usurpatori, dovrà subire patimenti e dolore, ma sa anche che essi verranno riscattati nel tempo. Intanto Carlo Martello vive la sua beatitudine nel Sole, il Tiphereth (Bellezza) del Piano Spirituale, Atzilutico.
Ed ecco un altro di quelli splendori
ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi
significava nel chiarir di fori.
 15

Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi
sovra me, come pria, di caro assenso
al mio disio certificato fermi.
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«Deh, metti al mio voler tosto compenso,
beato spirto», dissi, «e fammi prova
ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!».
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Ed ecco che un altro spirito si avvicina al Nostro, dimostrandogli la volontà di compiacerlo, con la sua luce. Gli occhi di Bëatrice, sempre fissi sul suo Fedele, come prima (v. canto VIII vv. 40-42 e relativo commento) concedono con un cenno l’assenso da lui richiesto. E Dante a lui: “Spirito beato, esaudisci il mio desiderio, provando così che posso riflettere in te ciò che penso!”
Onde la luce che m’era ancor nova,
del suo profondo, ond’ ella pria cantava,
seguette come a cui di ben far giova:
 24

«In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava,
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si leva un colle, e non surge molt’ alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto.
 30
Così quella luce ancora sconosciuta al Nostro, dal suo splendore che prima era tutto canzone, gli  risponde come chi vuol fare il bene: “In quella porzione della malvagia terra italiana (Marca Trevigiana, Treviso = paese del toro)  situata tra Rialto (= rivo alto) e le sorgenti del Brenta (=vasca) e del Piave (= da radice indoeuropea ‘plow’= che scorre), si innalza un colle non molto alto, dal quale è scesa una torcia (incendiaria; è Ezzelino III da Romano, signore della Marca Trevigiana) che ha procurato un gran danno alla zona…”
D’una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d’esta stella;
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ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo.
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“…Noi siamo della stessa radice (fratelli): a me fu dato il nome di Cunizza (= Cunegonda = che combatte per la stirpe; nota per i diversi mariti e amanti avuti in vita), qui risplendo perché fui influenzata da questo astro (Venere), ma ora con gioia perdono a me stessa l’inclinazione (all’amore) che mi ha destinata a questo cielo, e la cosa non mi dispiace, anche se può sembrare strana (ai vivi)…”

Il secondo spirito che parla a Dante in questa sfera di Venere è Cunizza (che combatte per la stirpe) a lei, per il nome, possiamo attribuire il Geburah dell’Albero di Netzach dantesco; dalla sua terra di nascita (Marca Trevigiana, mescolanza di toro, simbolo di utilità, forza e virilità, di acque fecondatrici e di pericoloso fuoco) e dalla sua vita amorosa alquanto disordinata, possiamo dedurre che essa rappresenta lo spirito combattivo dell’arte dantesca: è grazie alla sua Cunizza interiore che egli riesce trasmutare le sue forze primordiali (istinti passionali, rabbie politiche, risentimenti ecc.. di natura ‘infera’) in consapevolezza e sublime poesia di natura ‘paradisiaca’.
Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
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questo centesimo an
no ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
sì ch’altra vita la prima relinqua.
 42
“… Lo spirito gioioso e luminoso, gemma di questo cielo, che mi sta vicino, è stato famoso (sulla terra) e prima che il suo ricordo svanisca passeranno più di 5x100 anni: l’uomo deve eccellere in qualche campo, così che poi alla sua vita fisica subentri la vita della fama (da radice sanscrita ‘bha-mi’ = io splendo)…”
E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;
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ma tosto fia che Padova al palude
cangerà l'acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude; 48

e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.
 51
“…Ma a questo non pensa la gente che vive tra il Tagliamento (=luogo dei tigli, degli alberi) e l’Adice (=Adige = acqua che scaturisce), né, benché sconfitta, si pente; ma tosto avverrà che i Padovani, vinti dai Vicentini (nel 1312), arrossiranno (col sangue) le acque della palude (del Bacchiglione) per aver rifiutato di fare il loro dovere; e dove il Sile (= il silente) e il Cagnano (= il canuto) confluiscono il superbo tiranno (Rizzardo da Camino, signore di Treviso, ucciso in una congiura nel 1312) sarà vittima di un tradimento…”
Piangerà Feltro ancora la difalta
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s’entrò in malta.
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Troppo sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,
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che donerà questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese.
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“…Anche Feltro (= tessuto pressato; ma anche filtro, pozione; Feltre) piangerà  per la slealtà del suo iniquo vescovo (Alessandro Novello che nel 1314 tradì alcuni ferraresi che gli avevano chiesto asilo); per una simile malvagità avrebbe dovuto andare in prigione. Ci vorrebbe un recipiente troppo grande, e si stancherebbe chi volesse pesarlo, per raccogliere il sangue ferrarese che questo prelato ha donato (ai Guelfi) per essere di parte; ma simili doni sono consoni all’indole (traditrice) di quel paese...”
Sù sono specchi, voi dicete Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
sì che questi parlar ne paion buoni».
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Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com’ era davante.
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“… E queste profezie sono vere perché le apprendiamo dalla gerarchia degli Angeli che voi chiamate Troni (= angeli del settimo cielo, di Saturno), specchi della luce Divina”.  Poi Cunizza tace e, occupandosi d’altro, riprende a danzare.

Prima di rimettersi a danzare beata nella sua rota, Cunizza (= che combatte per la prole) presenta al Nostro un altro spirito dello stesso cielo di Venere e approfitta dell’occasione per profetizzare la durata della sua fama (= splendore) nel mondo (ed altro); poi sapremo che si tratta di Folco (= che combatte per il popolo) da Marsiglia, trovatore provenzale. Certamente, data l’affinità dei loro nomi, si comprende la premura di Cunizza; ma ora cerchiamo di entrare nel significato della sua profezia: 5x100 anni di fama. Che cosa può voler dire? Per la numerologia, 5 è il valore dell’Archetipo dell’Iniziato, 100 il valore dell’Archetipo del Sole (v. in www.teatrometafisico.it  Archetipi, le relative Lezioni-spettacolo). Se Cunizza e Folco (che combattono) possono essere omologati alla Sephirah Geburah (la Forza) dell’Albero di Netzach (la Vittoria), ‘Iniziato’ e ‘Sole’ possono essere i due Sentieri (cineroth) consigliati per la fioritura di tale centro, affinché esso possa diventare  famoso (= splendente). Che scopo della vita sia la fioritura dei centri (Sephiroth) dell’Albero non è recepito dalla personalità comune, che pur vive (tra il Tagliamento e l’Adice) tra gli Alberi (della Vita), presso l’acqua (di Vita) che scaturisce (per tutti). Ma non perseguire lo scopo della vita significa mancare al proprio dovere, cioè contrarre un debito che per essere riscattato richiederà sofferenza, sacrificio, sangue, vale a dire energie. Superbia ed egoismo producono un tradimento (della valenza dell’energia) là dove dovrebbe esserci silenzio e saggezza (confluenza di Sile e Cagnano). Quando l’energia che dovrebbe fluire nei centri viene bloccata dal feltro (filtro, veleno) del tradimento proprio da chi dovrebbe favorirne la fioritura (Papa, Iniziato, prelato o ‘vescovo’ che sia, Archetipo n. 5), non c’è limite allo spreco…
L’altra letizia, che m’era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso in che lo sol percuota.
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Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista.
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L’altro spirito beato (Folchetto di Marsiglia, poeta provenzale), già segnalato (da Cunizza vv. 37-38) come gioia preziosa, si mostra agli occhi di Dante come un balasso (= balascio, rubino) colpito dal sole. Su nel cielo per la felicità si acquista splendore, come sulla terra quando si sorride, ma giù nel mondo quando si è tristi ci si rabbuia.

Viene qui messa in evidenza la sostanziale differenza di qualità tra il mondo dell’Aldilà  (Olam ha-Ba) e il mondo di qua (Olam ha-Zeh): lì splendore in continua crescita, qui alternanza dei contrari, (v. canto VIII ns/ commento ai vv. 94-99) dovuta agli ‘Attributi’ (i Guna della tradizione induista) che caratterizzano il nostro mondo dopo la caduta. Nella Kabbalah, ‘Olam ha-Ba’ è un’espressione che indica il ‘Mondo a venire’; lì le anime dei ‘giusti’ (Tzaddiqim) risiedono tra un’incarnazione e l’altra e ricevono, proprio come Dante in questo suo viaggio, la ‘correzione spirituale’ (Tikkun ha- Neshamot) necessaria al loro progresso.
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’ io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’ esser fuia.
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Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
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perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
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E Dante a lui: “Spirito beato, il Signore vede tutto, e tu vedi in Lui, così non ti si può nascondere alcun desiderio. Allora perché non sento rispondere al mio la tua voce che allieta il cielo cantando con i Serafini, gli angeli con le sei ali? Se potessi entrare in te come tu entri in me, io non aspetterei la tua domanda”.

«La maggior valle in che l’acqua si spanda»,
incominciaro allor le sue parole,
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
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tra ’ discordanti liti contra ’l sole
tanto sen va, che fa meridïano
là dove l’orizzonte pria far suole.
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Ed ecco le sue parole: “Il più grande mare (il Mediterraneo= che sta in mezzo alle terre) riceve le acque dell’Oceano che circonda la terra, estendendosi tanto che a oriente fa da meridiano quel cerchio che a occidente fa da orizzonte.

Di quella valle fu’ io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.
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Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’ io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.
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“...Io provengo (dalla costa meridionale francese) dalla valle tra l’Ebro (= fiume, valle) e la Magra (= secca, ma anche da radice indoeuropea ‘mak’= sottile) che separa per un tratto il Genovese (di Genova, da una radice indoeuropea ‘y-aa’=passaggio, porta)  dal Toscano (= tirreno, signore della cittadella, guardiano della torre).  La città di Buggea (Bougie = candela, ma anche inganno; in Algeria) e quella in cui sono nato (Marsiglia), che ha scaldato col suo sangue il porto (i marsigliesi furono trucidati per ordine di Cesare durante la guerra civile), hanno lo stesso meridiano, stesso tramonto, stessa alba…”

Lo spirito presentato a Dante da Cunizza con tanta premura e da lui interpellato con una perifrasi raffinata e un tantino pungente, risponde con altrettanta raffinatezza e sfoggio di locuzioni eleganti illustrando la sua ‘patria’, il suo ‘luogo’ di origine. Come detto in precedenza, per il suo nome, abbiamo collocato Folco (= che combatte per il popolo) sul Geburah dell’Albero di Netzach, il cielo di Venere. Ed ecco i vari riferimenti: esso è al centro del grande mare, (nel mondo astrale, yetziratico, dover si trova Netzach): tra ciò che sta in basso, a valle (l’Ebro), mondo fisico, assianico, e ciò che è  sottile (Magra), mondo mentale, briatico, che separa ciò che passa, (che va oltre, il Genovese) da ciò che rimane, che guarda la torre (il Toscano), questo ‘luogo’ sta di fronte alla luce (Chesed, suo reciproco ed interagente), che (a volte) tuttavia può ingannare, mentire (Buggea)…

Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui;
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ché più non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al pelo;
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né quella Rodopëa che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.
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“…Tra quella gente il mio nome fu Folco (= che combatte per il popolo; visse presso numerose corti; grande amatore, pentitosi della sue passioni, divenne monaco cistercense e vescovo di Tolosa nel 1205), e questo cielo (di Venere) risplende della mia luce, come io fui influenzato dalla sua; perché da giovane, amai più della figlia di Belo (= cielo; Didone, che con la sua passione per Enea) addolorò Sicheo (lo sposo defunto) e Creusa (= regina; la sposa perduta di Enea; v. in
www.teatrometafisico.it  il copione dell’Eneide e relativa interpretazione cabalistica); e più di Fillide che abitò il monte Rodope (= volto di rosa) e si uccise per amore di Demofoonte (= uccisore di popolo); e più del figlio di Alceo (= il forte, Eracle) che, innamoratosi di Iole (=viola)  morì per la gelosia della moglie Deianira…”
Non però qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch’a mente non torna,
ma del valor ch’ordinò e provide.
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Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
cotanto affetto, e discernesi ’l bene
per che ’l mondo di sù quel di giù torna.
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Ma perché tutte le tue voglie piene
ten porti che son nate in questa spera,
proceder ancor oltre mi convene.
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“…Tuttavia qui non ci si pente, ma si è felici, non per i peccati commessi, che sono stati dimenticati, ma per la Virtù divina che così volle e stabilì (la nostra salvezza). Qui si contempla l’Arte divina che compie tali meraviglie e si comprende come il mondo celeste muova il mondo di sotto. Ma per soddisfare ogni tuo desiderio di conoscenza nato in questo cielo, occorre che io parli ancora…”

Per illustrare l’influsso che l’astro Venere ha esercitato su di lui, Folco dichiara di aver amato sulla terra più di tre amanti famosi, morti per amore: più di Didone, figlia di Belo (= del cielo, celeste), di Fillide, che abitò sul monte Rodope (= dal volto di rosa, delicato) e più di Eracle, figlio di Alceo (= il forte). Ma ora in Paradiso non ricorda più la colpa dei suoi eccessi, ma gioisce della Bontà Divina che dispone gli influssi a fin di bene. Se, in Folco Dante rispecchia il suo ‘trovatore’ interiore egli ce lo descrive con tre parole: celeste, delicato, forte. Didone, Fillide ed Eracle, persero la vita per il loro amore, ma chi, come Folco riesce a trasmutare l’amore carnale in amore spirituale, amerà di amore impersonale tutti e sarà beato.
Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.
 114

Or sappi che là entro si tranquilla
Raab; e a nostr’ ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.
 117

Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta
che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’ alma
del trïunfo di Cristo fu assunta.
 120
“…Ora tu vuoi sapere chi c’è in questa luce che splende a me vicina come un raggio di sole nell’acqua chiara. Sappi che lì risiede in pace Raab (= ampiezza; la prostituta di Gerico che aiutò Giosuè a conquistare la città; Giosuè 2, 1-21 e 6, 22-25) e il nostro cielo, di cui fa parte, è da lei assai influenzato. Al trionfo del Cristo (quando trasse dal Limbo i giusti, inferno IV, vv. 46-63)  fu la prima ad entrare in questa sfera in cui termina il cono d’ombra proiettato dalla terra …”

Come Cunizza ha indicato a Dante lo splendore di Folco, così ora Folco a sua volta gli indica lo splendore di un'altra anima, di Raab (= ampiezza) la meretrice di Gerico. Rileggendo i due brani del libro di Giosuè che la riguardano ci colpisce in particolare la frase che Raab rivolge alle due spie israelite che hanno passato la notte da lei: “…So che il Signore vi ha assegnato il paese…nessuno ardisce fiatare dinanzi a voi perché il Signore vostro Dio è Dio lassù in cielo e quaggiù in terra…”. Poi ci viene in mente una frase di Gesù ad un fariseo a proposito di un’altra ‘peccatrice’,  tratta dal Vangelo di Luca (7, 36-50): “…Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato.” E’ il ‘grande’ amore delle due donne a renderle ‘degne di perdono’. Entrambe hanno il centro dell’Amore, del cuore, Tiphereth  di Netzach talmente illuminato ed espanso da collassare nel suo Kether, (nella Corona): lì, nel centro dello ‘O’, radice ed anima di tutte le Sephiroth esse hanno conosciuto il Signore e ‘sanno’ Chi Egli sia e cosa possa fare.
Ben si convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de l’alta vittoria
che s’acquistò con l’una e l’altra palma,
 123

perch’ ella favorò la prima gloria
di Iosüè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria.
 126
“…Fu davvero cosa giusta porla quale palma (emblema) della  Vittoria conseguita dalle due palme (= 2 braccia della Croce inchiodate del Cristo), perché Raab ha favorito la prima gloria di Iosüè (= Giosuè = il Signore salva)  in Terra Santa, terra di cui l’attuale papa si cura ben poco…”

Quale componente interiore di Dante rappresenta Raab (= ampiezza), la meretrice che per prima ha favorito la gloria del Salvatore sia in Terra Santa che nella sua discesa agli inferi? Per la scelta del nome, essa simboleggia la sua ‘ampiezza’, cioè la sua capacità di ‘Comprensione’; è quindi relativa allo sviluppo della sephirah Binah della sua sfera di Venere).
La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
 129

produce e spande il maladetto fiore
c’ha disvïate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
 132
“…La tua città (Firenze), nata dal seme di colui che si ribellò al suo Creatore per primo, (Lucifero)  la cui invidia ha fatto tanto piangere (per la caduta dei progenitori), conia quel fiore maledetto (il fiorino su cui è raffigurato il giglio), che ha corrotto pecore ed agnelli, avendo trasformato (per avidità)  il pastore in lupo…”
Per questo l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a' lor vivagni. 135

A questo intende il papa e’ cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabrïello aperse l’ali. 138
“…Questa è la ragione per cui l’Evangelio  (i Testi Sacri) e i libri (dei Padri della Chiesa) sono trascurati, mentre vengono studiati i Decretali  (testi di Diritto), come si vede dalle note scritte ai lati. Di questi si occupano papi e cardinali, dimenticando l’annunciazione di Gabriele la vita a Nazareth di Gesù…”

Ma Vaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
 141

tosto libere fien de l’avoltero».

 “…Ma il Vaticano e le altre zone sacre di Roma, dove morirono i martiri seguaci di Pietro, presto saranno liberate da questo avoltero ( = adulterio, sacrilegio) ”.

Benché in Paradiso e nella sfera dell’Amore, attraverso le parole messe in bocca a Folco (= che combatte) il trovatore provenzale, il Nostro non cessa di rimproverare la sua città, Firenze, accusandola di produrre il maledetto fiorino per la cui avidità cristiani e preti hanno dimenticato il Cristo, lo studio dei Libri Sacri e la Terra Santa, il che è un vero sacrilegio; tuttavia egli profetizza che nella Roma (dal greco ‘romé = forza) e nel Vaticano (dal latino ‘vaticinatio’ = profezia) dei martiri, seguaci di Pietro,  tale avoltero  cesserà.  Come interiorizzare il rimprovero dantesco? Se Folco rappresenta il trovatore battagliero di Dante, e Firenze il cuore della sua ‘terra’ ancora in preda alle discordie, e se il Nostro, nonostante abbia bevuto le acque del Lete (= che fa dimenticare il male) e dell’Eunoé (= che fa ricordare il Bene) ancora recrimina e combatte con gli altri e con se stesso, forse il suo ‘paradiso’ è ancora poco ‘celeste’, ma egli spera nel futuro, nella ‘forza della sua profezia’ che cancellerà ciò che va cancellato: l’avoltero



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