PURGATORIO - CANTO XXXIII


Interpretazione cabalistica di Franca Vascellari
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’Deus, venerunt gentes’, alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;
 3

e Bëatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.
 6
O Signore, nella tua eredità sono entrati i gentili (gli stranieri), hanno profanato il tuo santo Tempio, hanno ridotto in macerie Gerusalemme.” (salmo 78, 1) così cantano le Donne (le 7 Virtù) piangendo e alternando il dolce canto a tre voci e a quattro; Beatrice (= colei che dona beatitudine) sospirando, devota le ascolta, pallida quasi come Maria (= l’afflitta) dinanzi alla Croce.

Le sette Virtù, corrispondenti ai centri (sephiroth) dell’Albero bianco, lamentano la profanazione del Tempio (della personalità) da parte dell’albero nero, cioè della prostituta (astrale nero) e del gigante (mentale nero), e piangono la rovina della città Gerusalemme (Malkuth), cioè del carro trasformato in mostro (v. canto XXXII vv. 109-160); mentre Beatrice, il centro della Coscienza (Daath) è paragonata a Maria, che vede dolorosamente rinnovato il Sacrificio del Figlio (Tiphereth).
Ma poi che l’altre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:
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’Modicum, et non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me’.
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Poi le si mise innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e ’l savio che ristette.
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le vergini la lasciano parlare (cioè tacciono), Beatrice si alza ritta in piedi e risponde loro tutta accalorata: “Amate sorelle, ‘ancora un poco e non mi vedrete, un pò ancora e mi vedrete’ (Giovanni 16, 16)”. Quindi si pone dietro alle sette Virtù e con un cenno (si fa seguire) da Dante, Matelda e Stazio.

Al lamento doloroso delle sue Virtù la Coscienza reagisce e risponde con le parole del Cristo del vangelo di Giovanni: alla Croce (morte) seguirà la Resurrezione (Vita) e quindi la Redenzione (dell’umanità).
Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
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e con tranquillo aspetto "Vien più tosto",
mi disse, "tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto".
 21
se ne va Beatrice e, dopo neanche dieci passi, tornata serena, fissando i suoi occhi in quelli di Dante, gli dice: “Vieni presto, così che se ti parlo, sei già pronto ad ascoltarmi”
Sì com’io fui, com’io dovëa, seco,
dissemi: "Frate, perché non t’attenti
a domandarmi omai venendo meco?".
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Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
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avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: "Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono".
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Dante la raggiunge continua: “Fratello, perché non osi pormi le domande, ora che cammini con me?” E come capita a coloro che, troppo umili dinanzi ai superiori, non riescono ed emettere la voce con chiarezza, così succede al Nostro che a mezza voce dice: “Madonna (= mia Signora), Voi conoscete ciò che io vorrei (conoscere) e ciò che mi è utile”.

Appena l’atmosfera si è placata, Beatrice torna di tranquillo aspetto, Ella riprende  l’istruzione di Dante che, chiamandoLa Madonna, ‘mea Domina’, mia Signora, e assoggettandosi a Lei in tutto, si dichiara disposto a ricevere gli insegnamenti che la sua Coscienza Cristica vuole impartirgli.
Ed ella a me: "Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’om che sogna.
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Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
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Beatrice a lui: “Desidero che tu ti sciolga dal timore e dalla vergogna, cosicché tu possa parlare come uno che non dorme più. Sappi che il vaso (= carro) che il serpente ha devastato ora non c’è più, ma chi ne ha colpa, impari che la Giustizia divina non fa eccezioni…”

Beatrice pone l’accento sulla necessità per il Discepolo sul Sentiero di non parlare più com’om che sogna, cioè di essere e rimanere d’ora in poi ‘sveglio’, vigile: perché  chi sogna, dorme e chi dorme è incosciente e non vive, ma è vissuto dagli accadimenti della vita. Ma poi lo rassicura sulla Giustizia Divina che se permette il male lo fa per la realizzazione di un Bene più grande.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
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ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
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nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
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Non rimarrà per sempre senza eredi l’aquila che ha lasciato le penne nel carro e per le quali questo è diventato mostro e preda (v. canto XXXII vv. 109-160), perché io vedo come cosa certa, e perciò la dico, che già le stelle (il destino), libere da ogni ostacolo, recheranno il tempo in cui un DXV (un DUX, un condottiero) inviato dal Signore, ucciderà la fuia (= la ladra, la prostituta)  e il gigante che opera nel male con lei…”

Per l’interpretazione classica viene qui profetizzata la venuta di un Inviato dal Cielo che punirà la fuia (la Chiesa), ladra e prostituta e il gigante (il re di Francia) che con lei delinque.

Dal nostro punto di vista interiorizzato l’Inviato del Cielo corrisponde a quella componente della personalità che, riconoscendosi come ‘Inviata dal Sé’, riporta l’ordine e l’armonia nel caos del disordine e della confusione prodotti dal mentale e dall’astrale capovolti. Le lettere DXV, in numeri romani corrispondono: D a cinquecento, X a dieci e V a cinque; per la numerologia 500 è il valore numerico dell’Archetipo della ‘Forza’, 10 quello dell’Archetipo della ‘Ruota’ e 5 quello dell’Archetipo del’ ‘Iniziato’, quindi l’Inviato, il DUX,  deve racchiude in sé Forza (volontà), Destino (adattamento) e Iniziazione (Spiritualità).  
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;
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ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
 51
E forse il mio dire ti è oscuro come quello di Temi (= dea della Giustizia, famosa per l’oscurità delle sue profezie) o della Sfinge (= il mostro dell’enigma di Tebe, che si gettò in mare quando Edipo il Laiade - non Naiade, corruzione del verso 759 del libro VII delle Metamorfosi di Ovidio -, figlio di Laio, risolse il suo indovinello e Temi per vendetta distrusse i campi e i greggi dei Tebani); e forse il mio dire, confonde la ragione; ma presto i fatti chiariranno questo enigma senza danni, (ma con gioia).

A volte alla personalità (Malkuth) non è chiaro ciò che la Coscienza (Daath) vuole fargli capire, ma gli accadimenti con il tempo, (la pazienza e l’umiltà) porteranno alla comprensione di ciò sembra incomprensibile.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.
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E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.
 57
Tu prendi nota delle mie parole così come te le dico e riportale ai vivi, vivi la cui vita non è altro che corsa verso la morte. E tieni a mente, quando scrivi, di parlare dell’Albero che qui è stato danneggiato due volte…”

L’Albero della Conoscenza del Bene e del male viene ad essere proprio l’Albero cabalistico, che dovrebbe essere tutto bianco (formato da Sephiroth), ma una volta verificatasi la caduta (rottura dei vasi, shevirah) può purtroppo essere anche nero, (formato anche da qelipoth). La nostra razza umana discendente della coppia primigenia Adamo ed Eva, per la quale si è verificata la caduta, primo danno all’Albero, è portata per inclinazione a danneggiarlo per la seconda volta; è quello che facciamo normalmente quando cediamo alla tentazione e seguiamo i suggerimenti dell’Avversario (del gigante e della prostituta). Per l’interpretazione cabalistica della ‘caduta’ v. in www.taozen.it  Testi sacri, ‘Commento alla Genesi cap. 3.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.
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Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l’anima prima
bramò colui che ’l morso in sé punio.
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Chiunque deruba o danneggia l’Albero della Conoscenza del Bene e del male è come se bestemmiasse (dal latino ‘blastemare’ = offendere), infatti offende la Divinità che lo ha creato solo per Sé. Per averne morso il frutto il primo uomo (Adamo) ha atteso per più di cinquemila anni, in sofferenza e desiderio, la venuta di Colui (il Cristo) che ha riscattato quel morso con la Sua Vita..”

Chi morde il frutto dell’Albero come Adamo (= fatto di terra) deve attendere cinquemila anni per riscattare il suo errore. Il Nostro ci suggerisce con questo numero ‘5000’ tre possibilità per la numerologia; 5x1000: 5 è il numero della sephirah Geburah (sephirah della caduta) che deve essere riscattato 1000 volte; oppure 50x100: 50 è il numero della cinerah (v. Archetipi) della Temperanza, che deve essere riscattato 100 volte; oppure ancora 500x10: 500 è il numero della cinerah della Forza (v. Archetipi) che deve essere riscattato 10 volte. In tutti e tre i casi quel primo ‘morso di frutto’ comporta solo grandissimi sacrifici e infinite sofferenze per essere annullato.
Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
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E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
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per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.
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Il tuo intelletto è intorpidito se non capisce che l’Albero è tanto alto e ampio per un motivo ben preciso: (per restare inaccessibile all’uomo). Se i tuoi pensieri vani non fossero tanto incrostati (come l’acqua del fiume Elsa, pieno di calcare) attorno alla tua mente, e se il piacere (di macchiarsi) non fosse per loro come per Piramo il gelso (Piramo macchiò di sangue il gelso testimone del suo amore per Tisbe, cfr. Purgatorio XXVII vv. 37-39) allora riconosceresti moralmente la Giustizia divina del divieto…”

Per una maggior comprensione del divieto divino di mangiare il frutto proibito v. ‘Autosacramental’ di Calderon de la Barca (e relativa interpretazione) in  www.teatrometafisico.it   copioni.

 Ma perch’io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,
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voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto".
 78
Ma poiché io vedo il tuo intelletto come pietrificato e quindi oscurato al punto di non comprendere le mie parole, voglio che tu le ricordi se non nei particolari, almeno nell’insieme, come il viaggiatore porta intorno al suo bastone la palma (in ricordo del pellegrinaggio fatto a Gerusalemme)”.
E io: "Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
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Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s’aiuta?".
 84
Dante: “La mia mente è plasmata da Voi come dal sigillo è plasmata la cera che non ne muta l’immagine. Ma perché il vostro linguaggio è tanto più elevato della mia comprensione che tanto meno l’afferra quanto più cerca di penetrarlo?”
"Perché conoschi", disse, "quella scuola
c’ hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
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e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina".
 90
Beatrice a lui: “Affinché tu riconosca che la scuola filosofica che hai seguito è inadeguata a comprendere la mia parola e affinché tu possa comprendere che la sapienza umana è tanto lontana dalla divina quanto la terra dal cielo che ruota più in alto”.

Beatrice, la Coscienza, Daath, rivendica il suo ruolo di intuizione, ‘fuoco’ del mentale (Briah, e terra di Atziluth). L’intuizione, cioè la capacità di ‘intu-ire’ nel piano Spirituale (Atziluth) è superiore agli altri elementi del mentale. Essa è superiore alla terra (logica), all’acqua (capacità di fare i collegamenti) e all’aria (capacità di conoscere i simboli); (cfr. Albero di Dante canto XXVIII); questi elementi restano legati ai piani più bassi dell’Albero e la filosofia che li usa e non attinge all’intuizione (fuoco mistico) non può giungere a conoscere il Divino, ma solo argomentarne senza vera cognizione di causa.

Ond’io rispuosi lei: "Non mi ricorda
ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda".
 93

"E se tu ricordar non te ne puoi",
sorridendo rispuose, "or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
 96
il Nostro a Lei: “Non ricordo di essermi mai allontanato da Voi, né la coscienza mi rimorde per questo”. Allora sorridendo Beatrice gli risponde: “Non puoi ricordarlo, perché poco fa hai bevuto l’acqua del Lete…”
e se dal fummo foco s’argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
 99

Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude".
 102
E se è vero che dal fumo si capisce che c’è fuoco, così la tua dimenticanza rende palese la colpa di aver volto altrove i tuoi desideri. Ma d’ora in poi le mie parole saranno semplici quanto è necessario affinché tu le comprenda”

Avendo bevuto l’acqua del Lete il Nostro non può e non deve  più ricordare gli errori del passato. Essere giunti sulla cima del mondo mentale, dove c’è Beatrice (colei che dona beatitudine), esclude la possibilità di ricordare, perché il ricordo porta con sé la sofferenza per ciò che di male ci si è lasciati alle spalle; è giusto che sia così, le esperienze spirituali che aspettano la personalità da questo momento in poi devono essere tutte solo di ‘beatitudine’. 
E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
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quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
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le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.
 111
il sole al massimo dello splendore e con moto rallentato, occupa il cerchio del mezzogiorno che muta al mutare del punto di vista; ed ecco che, come chi va innanzi ad altri si ferma allorché scorge qualcosa di interessante, così le sette donne (le Virtù) si fermano presso un’ombra tenue simile a quella che fanno le verdi foglie e gli oscuri rami presso i freddi ruscelli alpestri.
Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
 114

"O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?".
 117
Nostro sembra di scorgere dinanzi alle Virtù una sorgente da cui sgorgano due fiumi che scorrono lentamente (il Lete e l’Eunoé) come fossero Ëufratès e Tigri; così egli chiede a Beatrice: “O Luce e Gloria dell’umanità che acqua è questa che nasce da una sorgente e va in due direzioni opposte?”

Ëufratès e Tigri sono i fiumi della Mesopotamia, ma sono anche nominati in Genesi 2, 14  come i due fiumi che, insieme al Pison e al Ghicon, escono dall’Eden per irrigare la terra a cui forniscono l’acqua che è vita; allo stesso modo sulla cima del Purgatorio il Lete e l’Eunoé offrono al Pellegrino purificato le acque miracolose dell’oblio del male commesso e del ricordo del Bene compiuto che gli permettono di accedere finalmente alla Vita dello Spirito.
Per cotal priego detto mi fu: "Priega
Matelda che ’l ti dica". E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
 120

la bella donna: "Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l’acqua di Letè non gliel nascose".
 123
Beatrice gli risponde di chiederlo a Matelda, la quale, come uno che si difende da un’accusa, replica: “Questa ed altre cose io gliele ho già dette, e sono sicura che l’acqua del Lete non gliele ha cancellate”.
E Bëatrice: "Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.
 126

Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva".
 129
forse un pensiero più importante, che spesso toglie la memoria, gliel’ha fatto dimenticare. Ma ecco l’Eünoè  che scorre laggiù; conducilo fin là e, come tu sai fare, rinnova la sua virtù (i suoi ricordi del bene fatto e ricevuto)”.

Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
 132

così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: "Vien con lui".
 135
una persona gentile che non cerca scuse ma fa subito suo il desiderio di un altro, appena è stato manifestato, così Matelda subito si muove e, preso Dante, con grazia femminile, dice a Stazio: “Vieni con lui”.

S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio;
 138

ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.
 141

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
 144

puro e disposto a salire a le stelle.

Il Nostro ci confessa che, se potesse scrivere di più resterebbe a decantare quell’acqua di cui non ci si sazia mai, ma poiché ormai ha terminato la cantica del Purgatorio, ci dice solo che torna da quel santissimo fiume rinnovato come una pianta che ha messo nuove foglie: puro e pronto a salire alle stelle.

 A Matelda, all’energia psichica purificata, all’irradiazione del pensiero volontà della personalità (v. ns/ interpretazione di Matelda canto XXVIII vv. 82-84) spetta il compito di ravvivare la virtù di Dante; Matelda (= la forte), lo ‘prende’ e donnescamente ordina a Stazio, la sua capacità di ricevere l’illuminazione (v. ns/ inter. canto XXI vv. 91-93), di accompagnarlo. Quando la virtu` (il Bene) del Discepolo sul Sentiero è stata ‘ravvivata’, dopo  che egli ha compiuto la discesa agli inferi per la conoscenza e cancellazione del suo albero nero, e dopo che ha operato la risalita con relativa purificazione dei piani inferiori dell’Albero bianco, allora egli è pronto, finalmente, per la Conoscenza del Piano più alto dell’Albero, del Piano Divino, di Atziluth.

 

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