Capitolo 5

 

"…Quando Dio creò l'uomo lo fece a somiglianza di Dio. Li creò maschio e femmina, li benedisse e diede loro il nome 'Adamo'…" (Genesi V, 1,2) Adamà in ebraico vuol dire terra, quindi Adamo, l'essere umano, è terra benedetta. In questi primi versi del capitolo quinto di Genesi vi sono indicazioni preziose per chi ha deciso di intraprendere il "viaggio di ritorno" , per chi  vuole conoscere se stesso.  A nostro parere un testo sacro dà precise indicazioni ad ogni sincero suo amante. Diciamo precise non perché esse sono scritte in modo chiaro e inequivocabile, ma perché il mistico, l'assetato di Acqua di Vita, spinto dalla sua arsura indomabile sa trovare in esso 'quanto' in quel momento gli occorre, la cosa giusta per lui. La Torà è Legge non solo per quello che dice, ma anche per quello che custodisce gelosamente: a chiunque con la 'verga della fede' la 'percuoterà' Essa darà Acqua sempre viva. Anzi Essa è Legge, Sorgente, e la stessa verga della fede. Se io sono una terra benedetta, innanzitutto ho una doppia presenza  Divina (l'alito di vita soffiato dal Creatore, e la benedizione dello Stesso), ma soprattutto ho un dovere: coltivarmi. Ora, che vuol dire coltivare la terra?  Prima di ogni altra cosa significa vedere in essa la madre, perché la terra è madre di tutte le forme, di tutti i corpi che nascono in essa, quindi, amarla e coltivarla. Se il mio corpo è madre-terra e voglio coltivarlo, occorre che io lo pulisca da ogni 'erbaccia' e da ogni inquinante. E ciò vale anche per il cervello: le erbacce e gli inquinanti toccano anche questo prezioso e delicato organo, posto al servizio della mente. Poi è necessario che segua i ritmi delle stagioni: seminare a tempo debito, potare nel giusto periodo, raccogliere nel momento giusto. Osservare il cielo, guardare le stelle, vuol dire rendersi conto che senza la benedizione della pioggia , del sole e del vento, questa terra da sola non può produrre niente. Se divento veramente contadino di me stesso, la prima delle doti che tale attività mi regalerà sarà l'umiltà: senza il concorso di tutto l'universo, questo fazzoletto di terra che io sono non ha alcun senso. Il secondo regalo sarà la pazienza: seminare e aspettare senza riscavare per vedere a che punto sta il seme. Il terzo regalo sarà la filosofia, l'amore per la Saggezza Infinita che rende possibile tutto ciò che accade sotto e sopra il cielo. Quarto ed ultimo dono, l'Amore, quello che mi fa sentire il legame indissolubile con ogni cosa: ogni cosa è la risultante di tutte le altre. Senza questi quattro doni è impossibile dedicarsi all'arte della coltivazione della terra benedetta. Ma a questo punto chiediamoci: chi deve coltivare questa terra? Può la terra coltivare se stessa?  Ci sembra di no, occorre il contadino. E chi è il contadino?  E' quell'alito di vita, quella benedizione, che come un salmone sfida le correnti e persino le cascate dei fiumi per risalire al "luogo" che lo vide nascere, è la Vita che vuole ad ogni costo tornare alla Sorgente. Ed eccoci al tema del capitolo: da quella terra che siamo, a nostra immagine creiamo figli (altri noi stessi nel tempo) fino a che giungiamo a due tappe fondamentali del nostro lavoro: la generazione di Enoch e quella di Noé. Enoch è quella prima nostra vera preghiera che "cara a Dio" verrà da Lui presa: senza di essa, la nascita di Noé, di colui che potrà fare il patto col  Creatore, non potrà accadere.  Enoch, però, oltre ad essere la preghiera è l'orante, colui che prega, ed il pio viene sempre "preso" da Dio, perché chi cammina con Lui è Lui.  Ma solo con Noé troveremo grazia agli occhi del Signore, solo con lui riusciremo a resistere alla potenza di Dio nel momento in cui deciderà di mondarci, costringendo alla morte tutti quelle nostre creature che nel corso del tempo hanno vestiti "abiti neri", tutti quei burattini figli dei sensi votati all'egoismo che percorrono strade diverse da quelle che fanno sentire la presenza del Santo. Ma torniamo ad Enoch, egli camminò con Dio e fu preso da questi. Che cosa vuol dire ciò se non che Enoch, dotato di saggezza aveva compreso che la sua anima era una semplice  goccia d'acqua in uno sconfinato Mare Divino?  "Quando Mosé nostro maestro disse: 'Mostrami la tua gloria' egli desiderò ardentemente la morte per far sì che la sua anima abbattesse la barriera del proprio palazzo, ostacolo alla meravigliosa luce divina, che essa era desiderosa di contemplare…" (Yshaq  da Acco, citato da Moshe Idel in Cabbalà - Nuove prospettive - Giuntina, pag 76), è la metafora che compare nella Katha Upanishad IV,15, che lo stesso Idel una pagina prima cita: "Come acqua pura si identifica con acqua pura, così l'anima del saggio dotato di discernimento si identifica (con il Brahman)".  "Beati i puri di cuore perché vedranno Dio" (Matteo V, 8): Enoch era uno di essi e si confuse nella Luce Divina.Grazie. 

Grazie Nat.



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