ANTONIO E CLEOPATRA

 

La trama di questa tragedia è semplicissima.

Mentre si trova ad Alessandria d'Egitto alla corte di Cleopatra di cui è innamorato, Antonio viene a sepere che la moglie Fulvia (che ha combattuto contro Ottaviano) è morta, e decide di rientrare a Roma, per aiutare Ottaviano a contrastare la potenza di Pompeo. Per farsi perdonare l'opposizione di Fulvia e per rinsaldare l'amicizia, Antonio sposa Ottavia la sorella di Ottaviano. Saputa la notizia Cleopatra s'infuria. Ma l'alleanza dura poco: Antonio si rivolta contro Ottaviano e rispedisce la moglie a Roma, mentre Cleopatra mette a disposizione del suo amore la sua flotta perché possa dar  battaglia ad Azio. Per bloccare la campagna Antonio prova con la diplomazia, ma Ottaviano è irremovibile. Da parte sua, Ottaviano tratta diplomaticamente con Cleopatra, la quale si dimostra troppo disponibile con l'ambasciatore romano. Tutto questo fa ingelosire Antonio. E' guerra: per terra ha la meglio Antonio, per mare Ottaviano. Antonio è sconfitto: vuol togliersi la vita, tanto più che Mardian, l'eunuco della regina, gli annunzia la morte di Cleopatra (era solo uno stratagemma per calmare l'ira e la gelosia di Antonio). Antonio chiede ad Eros, suo attendente, di dargli la morte, ma questi pur di non farlo preferisce uccidere se stesso. Antonio si uccide a sua volta con la stessa spada: spirerà fra le braccia del suo amore. Infine, Cleopatra, per evitare di essere umiliata e dileggiata e di essere trofeo di Ottaviano, si lascia mordere da un aspide e muore insieme con le sue ancelle. Vengono celebrati i solenni funerali.

 

E' questa la tragedia della passione. Ogni qual volta Shakespeare tratta delle forti passioni umane, mette a nudo l'anima di ognuno di noi, per ricordarci senza mezzi termini come le acque impetuose delle passioni possano facilmente spegnere il lume dell'intelletto, e come esse riescano a creare un caos totale che porta inevitabilmente alla tragedia. Da un altro punto di vista, la passione è un vino ubriacante che acceca la vista, un fuoco, una sete divorante che nemmeno le acque dell'oceano riescono a placare.

In questo dramma i due protagonisti seguono la stessa sorte di Romeo e Giulietta, ma mentre lì c'è amore e passione, qui c'è solo passione; mentre lì tutto si svolge entro i recinti del cuore, ed i sensi alimentano il sole dell'amore, qui tutto avviene entro il recinto dei sensi ed alla luce opaca della luna. Cleopatra e Antonio sono due personaggi senza profondità, la cui vicenda sfiora appena la nostra compassione, a differenza di quanto ci accadeva con Giulietta e con Romeo, laddove un'immensa pietà scaturiva da ogni parte per quelle due giovani vite preda dell'equivoco e dell'impazienza, e per quell'amore stroncato dall'odio. Qui l'amore è proprio di passaggio, non è di casa. Per capire con che ambiente abbiamo a che fare in Alessandria d'Egitto basta ascoltare le parole di Filone, con cui la tragedia si apre. Di Antonio dice: "Il suo cuore di capitano…rifiuta ogni moderazione…s'è ridotto a mantice e ventaglio per rinfrescare la lussuria di una zingara" (Antonio e Cleopatra - Mondadori, con saggio introduttivo di Anna Luisa Zaso - pag.9). Mentre poco dopo lo stesso Antonio dirige queste parole a Cleopatra: "Non un minuto delle vite deve fuggirsene via senza qualche piacere. Che divertimento, stanotte?" (id. pag. 13). Questo è il clima, l'albero in cui matureranno i suicidi finali: una pianta votata alla dissipazione non può che causare la propria rovina. E' questa una pianta non potata a cui sono stati lasciati troppi frutti. I rami non ne reggeranno il peso e si spezzeranno. Ma le parole di Filone possono essere intese anche metaforicamente. Antonio è un capitano valoroso e coraggioso che riesce a condurre tutto l'esercito dei suoi buoni propositi in epiche battaglie contro il male. Marte, dio della guerra (fuor di metafora: la forza nata dalla volontà di perseguire il bene) lo rende sempre vittorioso. Ma ora questo dio lo ha abbandonato, perché il cuore di Antonio (che un tempo "gli schiantava i fermagli sul petto") ora batte per la lussuria, cioè per il vizio. Il vizio è esagerazione, malattia, droga, male, idiozia. Il fumatore per esempio sa che il fumo gli fa male, ma non può fare a meno di fumare, perché l'orribile vizio gli ha tolto ogni volontà. Eccoci dunque al nocciolo del problema dei due infelici e smoderati amanti: sono due esseri privi di volontà. Ognuno è prigioniero dell'altro perché entrambi sono prigionieri dello stesso vizio. La storia è piena di tragici amanti che con la loro mancanza di moderazione hanno dato vita all'occhio maligno di un tornado che tutto distrugge e spazza via. Venti taglienti carichi di voglia d'infinito e di eterno, che nella speranza di sentire il solo sibilo dell'orribile lama del loro roteare, tutto uccidono.  Sono esseri fatali, Icari imprudenti che ebri di volo abbandonano ogni prudenza e moderatezza. Sono i mistici dell'ego che danzano come dervisci non per annullarsi in Dio, ma per indiare il loro ego. Ma impariamo da loro i rischi cui ognuno di noi potrebbe andare incontro nel momento in cui lascia la propria volontà in mano ad una passione sfrenata, ad un vizio. Antonio o Cleopatra può essere ognuno di noi, non guardiamoli dall'alto in basso.  Come la volontà possa cedere il passo agli "inferiori" ce lo spiega l'indovino che, sempre nelle parti iniziali della tragedia, alla domanda di Charman (del seguito di Cleopatra) su quanti figli ella avrà risponde :"Se ogni vostra voglia avesse un grembo, e ognuna fosse feconda, un milione" (id. pag. 17). I desideri senza freni sono la porta della perdita della volontà. La moderazione è l'antidoto.

A volte Antonio sembra essere consapevole del suo stato di "schiavo" e sembra pure essere in possesso delle chiavi della "prigione", ma fra il dire e il fare… Leggiamo quanto egli dice al messaggero che gli reca la brutta notizia della morte della moglie Flavia: "Rimprovera le mie colpe con la piena libertà che verità e malizia possono esprimere. Ah, facciamo nascere gramigne quando in noi dorme l'agile mente; e dirci apertamente le nostre colpe è come arare il nostro campo"  (id. pag. 23). Egli sa che la sua mente è controllata dalle erbacce del vizio, ne parla pure, vuole sentirselo pure dire dal messaggero dei probabili giudizi dei concittadini romani, cosa che gli potrebbe pure far bene, ma pur sapendo e sentendo tutto questo, non riesce a muovere un dito: è paralizzato, stregato più che da Cleopatra da ciò che lega entrambi.  Ma Shakespeare non è solo dramma, è poesia, morale, buon senso, maestria. Vogliamo sottolineare uno di quei tanti passi che ci fanno amare questo genio. Pronuncia le parole Lepido (atto 2° scena II - pag. 61): "Degli errori si può parlare serenamente; ma se discutiamo con veemenza le nostre meschine divergenze, ci mutiamo in assassini anziché essere medici delle ferite. Dunque, nobili alleati, ve ne prego vivamente, affrontate i punti più dolenti con le parole più moderate, né alle discussioni aggiungete il rancore". Parole sagge queste, che dovrebbero far riflettere quanti, anziché comporre divergenze e sanare discordie, accendono ad arte i fuochi dell'odio, affrontando i punti più dolenti senza moderazione. Negli ultimi tempi nelle tivvù, nei gionali, negli stadi, e persino nei bar, la violenza che nei discorsi serpeggia maligna ha trasformato in "assassini", in pessimi medici, quanti all'inizio credevano di poter essere "medici delle ferite". Queste sagge parole dovrebbero essere incise in lastre di marmo da appendere dappertutto. Purtroppo sappiamo che queste parole oggi verrebbero lette da pochi, perché i tanti "non fanno che mettere guerra fra se stessi e il buon senso", come dice un servo a un altro servo (sia pure al singolare) nella sesta scena del secondo atto (pag. 109).

La tragedia piano piano monta, e come in Otello è annunciata dai serpendi nel petto, qui Antonio l'annuncia col piombo: "Amore, sono pieno di piombo" (169), dice a Cleopatra che poco prima con la nave ammiraglia, aziché combattere, fugge via seguita da Antonio. Questi, poco dopo le dirà ancora, e qui vien fatto un esame interiore: "…quando ci s'incallisce nel vizio - oh, miseria! - gli dei saggi ci cuciono gli occhi, lasciano cadere nella nostra sozzura in nostro chiaro giudizio, ci fanno adorare gli errori e ridono di noi mentre andiamo tronfi alla rovina" (id. pag. 185). Grande, grande Shakespeare maestro impeccabile, che mette in bocca allo stolto parole di saggezza che pesano il doppio perché cariche dell'impotenza del vizioso. 

A volte, nei vari drammi, dei personaggi ci richiamano alla mente altri personaggi più forti che nei loro confronti recitano il ruolo dell'archetipo, e ciò a prescindere dalla primogenitura dei personaggi stessi. E' il caso di Enobardo che, alla fine del terzo atto, poco prima di tradire Antonio (salvo poi pentirsi ed uccidersi) ci ricorda i soliloqui di Jago prima di ogni mala azione: "Ora vuole abbagliare i lampi. Essere furioso vuol dire avere tanta paura da non sentirla più; in questo stato la colomba si avventa contro lo sparviero. E come sempre vedo che quanto più si indebolisce la mente del generale tanto più gli riotorna  il coraggio. Se il valore vince la ragione, mangia la spada con cui combatte. Cercherò il modo di lasciarlo" (id.  191). Lo lascerà, ma non passerà molto tempo che si toglierà la vita. Questa è anche la tragedia dei suicidi: Eros, Antonio, Enobarbo, Cleopatra e tutte le sue ancelle.  A ognuno è rimasto se stesso per por fine a se stesso ("Eros, ci resta ancora questo: noi stessi, per por fine a noi stessi" (2297) -  dice Antonio poco prima del suicidio dei due). A quel punto solo la mortale ferita può guarire tutti ("presto devo essere guarito con una ferita" dice ancora Antonio). E quando questi è appena morto, Cleopatra dirà "Tutto non è che nulla", ma è troppo tardi per guarire da quella strana malattia che all'ego fa prediligere le cose di questo mondo e basta: regni, troni, ori e imperi non sono più nulla, come niente è anche la travolgente passione che ha legato i due sventurati amanti. La morte che Cleopatra si dà è emblematica. Essa scegli di farsi mordere il seno da un aspide: come a nutrire la morte: "Taci, taci!  - dice a Charmian - non vedi il mio bambino al seno, che addormenta la nutrice succhiando?" (id. Pag. 283). E' stata incapace di dare la vita e di preservarla in coloro che l'attorniavano, e come a mettere il sigillo su ciò che è stata, essa allatta il serpente-bambino. Cleopatra genitrice di morte, e non poteva che finire così, perché sia lei sia Antonio, avevano buttato via la loro vita rinunciando alla propria volontà.

Grazie, Nat.

 

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