Federico Garcia Lorca e la morte
(di Natale Missale)

 

"Voglio dirvi che io so come nascono le rose e la generazione delle stelle del mare, senonché…"(dal prologo parlato  della Farsa guignolesca: Teatrino di don Crìstobal - pag. 212 vol 23 de Il Teatro , a cura di Glauco Felici- Einadi, Il Giornale)

 

Lorca nasce il 5  Giugno del 1898 e muore, a 38 anni,  il 19 Agosto del 1936.
A pronunciare le parole del prologo sopra riportate è il Poeta, che subito dopo sarà impegnato in un fitto dialogo col Direttore.  Solo un poeta ricchissimo di immaginazione e di sensibilità poteva mettere in bocca ad un personaggio poeta (a se stesso) quelle parole. Sapere come nascono le rose e le stelle del mare non vuol dire essere esperti in botanica. Quel tipo di conoscenza si riferisce al mondo della più profonda fisiologia sentimentale della rosa e della stella ideale:"Il teatro pretende che i personaggi che appaiono in scena - aveva scritto Garcia Lorca - abbiano un vestito di poesia  e allo stesso tempo che si vedano loro le ossa, il sangue" (op.cit. pag. XVII). Ebbene, dopo avere letto le poesie di Lorca, ci siamo resi conto che ogni verso, financo ogni parola è un personaggio che cerca disperatamente di mostrare sangue e ossa; ogni vocale, ogni consonante sono cellule lorchiane, ognuna delle quali grida con tutta l'anima di cui dispone la propria identità. Ma essendo tale identità mutevole e sfuggente, vocali, consonanti, parole e versi diventano grido di disperata ricerca che delle ossa fa vedere le fratture, e del sangue l'emorragia lenta attraverso gocce che sanno. Sì, secondo noi, Lorca, attraverso tutte le sue poesie, canta quel grido misto di disperazione, rabbia, paura, rifiuto, disprezzo, e mille altre cose, che forse non ebbe modo di esplodere al momento della sua tragica fine.  Le sue vene sapevano con largo anticipo che quel sangue giovane era da versare, ed è per questo che hanno dato vita a poesie tristi e cariche di morte. Pochi sorrisi, poca luce, poca gioia, poco sole in esse. Poca vita.  Lungo i sentieri aperti da una musicalità struggente (come forse solo la musica spagnola sa dare), la strada che i versi di Garcia aprono è marchiata dalla tristezza, dalle lacrime, nonostante ogni parola sia un fiore. Ma fiore che odora di triste silenzio, di polvere, di nulla. Quindi canzoni che propongono una vita avvelenata anzitempo da morte prematura, incombente: "Cammino lungo la sera / tra i fiori della campagna / lasciando sopra la strada / l'acqua della mia tristezza".  (Canzone Primaverile -  del 28 Marzo del 1919 -  F.G. Lorca - Poesie - Bur, pag. 41). Quest' acqua rappresenta lacrime che Lorca ventunenne piange non dagli occhi, ma da tutto se stesso: dal corpo intero, dalla totale sfera dei sentimenti, da tutta la mente. Sì, leggendo queste poesie si corre il rischio di "bagnarsi" di tanta, tanta tristezza. Certo non sembra che lo sguardo del nostro cantore punti al Divino, al Trascendente. L'occhio è al servizio del corpo e pare mancare dell'  "attento Osservatore" che stava dietro lo sguardo mistico-filosofico di Tagore. I sensi del nostro grande poeta sembrano occupare tutta la scena, non lasciando alcuno spazio allo sguardo atrofizzato dell'occhio spirituale: "… un' allucinazione / munge i miei sguardi. / Vedo la parola amore / diroccata".  (L'ombra della mia anima - pag. 43, op. cit.). La parola amore, l'amore stesso è come una stanza diroccata che non offre più quello spazio vitale che possa accogliere, contenere per donare; non è più quel motore di vita che fa girare i cuori. Il nostro poeta offre, come una mucca al mungitore, i suoi sguardi all'allucinazione. E' un' incapacità di mettere a fuoco la vita, precludendosi ogni possibilità di vederne la Fonte e la Foce. Ecco perché dai suoi versi non esplodono risate, ma "amori morti": la vita che dona col suo poetare crea canzoni piene d'amori senza ali, quindi morti. "Io ho sete di aromi e di risate / sete di canti nuovi / senza lune né gigli, / e senza amori morti" (canti nuovi, id. pag. 45). Ecco perché, per usare le sue stesse parole, i suoi versi sono "uno stormo di cieche colombe / lanciate al mistero" (ivi, 46); oppure: un dolore che trapana la luna; un rintocco di campana smarrito nella nebbia; rose di sangue; sapore di ossa; pupille che piangono le foglie morte; animo ombroso con all'interno fiere senza musica con "bancarelle d'ombra".  Con uno sguardo così allucinato la natura non può che apparire colma di dolore. Il cielo, la terra, le piante sono solo personaggi che devono cantare questo dolore, questa sofferenza: "Sull'uliveto / un cielo sommerso / e una oscura pioggia / di stelle fredde… /gli olivi, / sono  carichi / di grida" (Id. pag. 71). Il mondo di Garcia è proprio disperato, perché lui è disperato. Ognuno di noi sbatte dentro di sé questo mondo che trasuda amore da ogni poro, e lo vernicia personalizzandolo. Quegli olivi carichi di grida non hanno più alcuna oggettività, alcuna impersonalità: sono la negativa degli alberi veri, vivi e protesi verso il sole,  la terra-acqua e l'aria. Sono opposti agli originali. Ed ecco che Garcia ci fa ancora una volta scoprire che nemmeno due soli individui riescono a vedere e sentire questo mondo allo stesso modo. Ognuno vive in un suo mondo, in un  suo spazio-tempo. Nemmeno la morte riesce a bloccare l'orologio del tempo per tutti alle "cinque in punto della sera". Solo nel mondo del Compianto per Ignazio Sanchez Mejias gli orologi danno tutti la stessa ora: las cinco de la tarde (le cinque della sera).
Il tempo di Lorca è compresso. La sua breve vita deve radunare i suoi tristi giorni nell'arco di 38 anni. La poesia dà intensità a questa brevità, dilatandone il tempo e lo spazio. I suoi versi sono atomi d'amore che in una sorta di reazione a catena sprigionano grande energia. Ma questa non è altro che l'eco d'un immenso amore imploso in un'anima delicata e sensibile. Le porte d'acciaio del cuore lorchiano sono gli unici testimoni di tale sentimento, e la musica dei versi è solo metafora di esso. Federico Garcia affida al ritmo alla melodia ed all'armonia della sua poesia il compito di farci intuire l'enorme peso di un amore non espresso che acquista la forma geometrica del pianto: "nell'aria si levano / le spirali di pianto" (Dopo il passaggio, id. pag. 79). "Il cuore svanisce": anche la sede dell'amore eterno muore: la vita muore, e "suona a morto una campana". Un paradosso che rende bene l'idea di tale poesia. Questo triste mondo è "il labirinto delle croci / dove trema il canto" 
(Strada, id, 85).
In questa poesia, i cento cavalieri andalusi verranno portati in tale labirinto da cavalli sonnolenti: ma questi cavalieri siamo noi lettori, che  ogni parola o verso  vedremo ficcati in campo santo come croci cimiteriali. Il legno non ha più vita perché porta crocifisso questo triste amore impossibile ormai spento per sempre. Si ode solo il grido disperato di tale amore che, come Gesù negli ultimi istanti, grida "Padre, perché mi hai abbandonato!". Ma tale labirinto ci cattura impedendoci l'uscita, perché la poesia, come un suono tremante, ammalia come il canto d'una sirena e quasi ci presenta la morte.    Come abbiamo fatto per lord Byron, per Leopardi, per Mozart, mandiamo tanto amore a Garcia, alla sua inquieta anima, e mandiamo amore anche alla sua poesia, affinché da quelle croci esploda in un mare di luce un canto risorto, perché così com'è, la vita che anima le sue poesie ha un nome paradossale: morte.  Ma morte è nulla, per chi non ha sposato la Vita, e non vorremmo che un così grande amore inesploso potesse esser asservito dai nichilisti cantori del niente. Sì, perché la poesia di Lorca, proprio a causa di tanto prigioniero amore, sebbene canti la morte, ha tutta la forza della Vita che non ha cantato. Dico la Vita che va oltre la pelle; oltre ogni corpo, oltre l'aspetto di Ignazio. Quella che non può essere rubata da nessun corno di toro. Quella che come amore muove il sole e le altre stelle, per dirla con Dante. Quella Luce che ha un solo compito: far capire in  eterno che l'ombra non è perché c'è Lei. Quest'amore inesploso, questo "nido di silenzi che non hanno volato" (Id. Capriccio, pag. 101), non è un non essere, ma un essere "soffocato", nascosto, quasi pudico e timido. Il silenzio è padre-madre della parola, ma il nulla non può essere la causa dell'essere. L'essere altri non è che un Eterno, Infinito Presente Che è causa di Se Stesso, è "l' Io Sono  di Mosé: "Mosé disse a Dio: 'Ecco, io arrivo dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?' Dio disse a Mosé: Io sono colui che sono ! Poi disse: dirai agli israeliti: Io - Sono  mi ha mandato a voi…" (Esodo - cap. 3 versetti 13, 14 ). L'  Io - Sono  è un  Essere che è sempre, e che sia sempre stato e sempre sarà è solo un modo di dire, perché l'Eterno Presente è sempre qui e ora. E' la Sostanza Ultima e Necessaria di Leibniz. E' , in una parola,  DIO.  "Apri le braccia, fratello. / Dio è il punto" ci dice Lorca nella Suite degli specchi (op. cit.pag. 99). Della geometria del mondo, Dio è il Punto, ma sarebbe meglio aggiungere che è anche il matematico che lo ha ideato.
Povero Garcia Lorca! Aveva tanta inconscia sicurezza di non arrivare alla vecchiaia che l' ha pure cantata. Le ali della morte battevano davvero il tempo della sua musica: " Mi vedo nei tramonti / e un formicaio di gente / mi cammina nel cuore"  (id. pag. 109). Possono essere interpretati in diversi modi questi tre versi di Confusione (sempre della Suite degli specchi), laddove il poeta si chiede: il mio cuore è il tuo cuore?… fratello sei tu o sono io?, e quindi alla fine sente nel suo cuore un formicaio di gente che cammina.  Noi sentiamo in questi versi una morte avvenuta in vita, la perdita di quel nucleo che, solo, può dare la certezza di essere: la identificazione con l' Uno, piuttosto che con la gente a livello di pensiero e di sentimento. Solo lo Spirito, la Scintilla Divina in noi può farci sentire uno con gli altri cogliendo in essi la loro Essenza simile alla nostra. Solo Dio è Uno, e soltanto in Lui possiamo annegare la nostra individualità, perdere la nostra vita, per ritrovare la Vita. In tutti i casi in cui l'ego rimane il centro dell'uomo: "Il Grande se ne va, il piccolo se ne viene" (dall'  I King  o Libro dei mutamenti - Astrolabio). Nei casi in cui l'ego è stato smascherato ed il nucleo dell'uomo è il Dio Vivente: "Il piccolo se ne va, il Grande se ne viene" (Id.). Il Grande è ovviamente Dio. Leggendo le poesie di Garcia Lorca abbiamo avuto la sensazione che il Grande se ne sia andato.  Basta scrutare attentamente il Compianto per Ignazio Sanchez Mejias .  Ne canta il corpo, lo squarcio provocato in esso dall'incornata del toro, ne canta il viso, il garbo, la voglia di morte, la tristezza, l'audace allegria, l'eleganza. Piange il suo amico  morto per sempre.  Viene cantato il fango da cui come corpi venimmo e in cui ci scioglieremo. Vien pianta la terra: nessuno sguardo al Cielo. Il dolore e grande, è toccante, vero. L'amore per l'amico è sincero, forte, ferito gravemente. Il Compianto sprizza musica da tutti i versi, ha ritmo incalzante, armonie deliranti, pause musicali travestite da paradossi.  Ogni parola è un requiem. Ma siamo molto lontani dalle atmosfere incredibili suscitate dal Requiem in re minore K. 626 di Mozart ove l'aria è rarefatta e pura, dove il dolore è cosmico, dove a comporre è un'anima che trascrive sotto ispirazione una musica che piove dall'alto e che ha dunque verticalità. La poesia di Garcia Lorca, a nostro parere, manca di questa dimensione verticale, poiché canta un uomo ridotto a solo corpo, canta la sola animalità dell'uomo. La si ama perché disperata, ed il nostro amore la copre d'un mantello di com-passione. La si ama perché nasconde nelle sue pieghe il canto funebre che l'autore, con largo anticipo, intona a se stesso. La si ama perché riesce quasi a smembrare le nostre carni e a farci toccare con mano la vanità di ciò che si accumula per la terra. La si ama anche perché ricca di umana pietà e di profonda amicizia, di fratellanza. Ma tutto questo amore non ci fa volare come riesce a fare la sublime poesia di Tagore. Garcia Lorca, con la morte di Ignazio, blocca l'orologio del tempo alle cinque della sera… alle cinque in punto della sera.  Ma la Vita che fino a quel momento aveva animato il suo amico,  ha solo smesso di essere in quel corpo ed è tornata ad ESSERE.  Garcia ha inchiodato il suo amico sulla croce del tempo. Non riesce a sentire il grido liberatorio di un'anima ormai in libertà. Quello lì non è Ignazio, ma un corpo qualunque, un motore senza Benzina, un burattino senza più Burattinaio. Lorca continua a vedere solo il personaggio che incarnò quel grande Attore che era il suo amico Ignazio. Non poteva vedere l'Attore, perché l'Attore che era in lui (nel nostro grande poeta) era sopraffatto dal dolore che il suo personaggio stava recitando, e da quello che inconsciamente sentiva per la sua oramai prossima violenta dipartita: sarebbe morto l'anno dopo, nel 1936. A 38  anni si è ancora incompleti: la saggezza matura con l'età. Ma il nostro Garcia è stato spento da mani insensibili, come spesso accade. Quanti filosofi, letterati, scienziati, uomini di genio, sono morti per mani così!
Il povero Federico Garcia Lorca è morto bambino e quasi lo vediamo attraverso le sue parole, quelle della Casida prima del ferito dall'acqua: Il bambino era solo… / faccia a faccia, il bambino e l'agonia / erano due verdi piogge allacciate. / Il bambino si stendeva per terra / e la sua agonia si curvava. / Voglio scendere al pozzo, / voglio morire la mia morte a sorsate…" (Op. cit. pag. 287).
Questo "prendere" versi qua e là non vada preso come un atto arbitrario. Sappiamo benissimo che tale casida c'entra poco con la morte del poeta. Ma ad un poeta della morte, ogni verso non può che essere riferito a lui stesso. Aver vissuto tutta la vita come un'agonia per via dei canti di morte, potrebbe pure autorizzare a vedere in ogni verso lorchiano un sorso.  Garcia Lorca, attraverso i suoi tristi versi ha voluto morire la sua morte a sorsate: ogni poesia, un sorso; ogni parola una goccia d'acqua di quel pozzo secco di Vita che è la vita vista dalla sola prospettiva del corpo.

 

Grazie, Natale Missale.

 

P.S.  Molti ricorderanno quella mirabile interpretazione del Compianto per Ignazio Sanchez Mejias di Federico Garcia Lorca (nella traduzione di Carlo Bo) che vide protagonisti il grande attore Arnoldo Foà ed il chitarrista Piero Gosio davanti agli schermi televisivi di una Rai che a quel tempo proponeva meno pattume e più cultura. Il famoso lamento divenne canto funebre: la simbiosi voce-musica-poesia era perfetta. Le Edizioni Guanda e la Fonit Cetra la proposero nella collana letteraria documento realizzata da Nanni de Stefani.



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