Petrarca
Canzoniere
Parole senza ali

 

Ognuno di noi vive il dramma del dissidio fra ciò che è e ciò che vorrebbe essere. Quando si è uomo di mondo (sono stato uno del gregge,  un brav'uomo mortale: dalla Lettera ai posteri, citata in Petrarca - I giganti Mondadori, ed. 1968, pag. 5) con fame di gloria e con un'intelligenza agile più che forte (la mia intelligenza è simile al mio corpo: fa affidamento sull'agilità più che sulla forza (idem), ma si vorrebbe essere uomo di Cielo, cioè un mistico forte di volontà e d'intelligenza, con assoluta capacità di dominio sui sensi, e con Dio come centro di gravità interiore, allora tale dramma può produrre un Canzoniere petrarchesco.  Ha dunque visto benissimo Mario Martelli nella sua introduzione alle opere del Petrarca in due volumi edizione Sansoni 1975: "Il dramma petrarchesco non sta, insomma, in sparsi motivi - il senso della caducità umana o l'instabilità delle nostre voglie o altro - , ma in questo dissidio profondo fra l'uomo ideale e l'uomo reale" (op. cit. pag. XLI, vol 1° ). Possiamo dunque affermare che Francesco Petrarca è un mistico mancato per sua stessa ammissione: Alto Dio… I' vo piangendo i miei passati tempi / i quai posi in amar cosa mortale / senza levarmi a volo, abbiend'io l'ale, / …Vergine d'alti sensi… / ch'almen  l'ultimo pianto sia devoto (Op. cit.  Canzoniere, pag. 185, 188).
Affascinato dalle letture di Sant'Agostino, Francesco puntò l'arco del suo cuore verso il Cielo, ma i begli occhi di Laura ne paralizzarono gli intenti, e lo costrinsero a ricamare versi per decenni sull'amore profano: l'amore sacro rimase solo una pia aspirazione. Ecco perché abbiamo titolato parole senza ali: i versi del Petrarca sono pesanti, terrestri, profani, avvenenti, musicali, ma non riescono nemmeno a farci fare un balzo, perché sono figli di Gea e non di Urano. Il Deuteronomio mosaico parla chiaro VI, 4 e 5: "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze".  Dunque, perché l'Unione mistica possa accadere, l'uomo deve amare il suo Dio con tutto il cuore con tutta l'anima e con tutte le forze. La Beatrice di Dante è leggera e luminosa, è celeste; Laura, invece, è pesante e opaca, è terrestre anche dopo morta.
Ecco quindi lo scopo di questo breve saggio: Perché Dio possa essere contattato, occorre che il corpo con tutti i suoi sensi ubbidisca al cuore e alla mente, e che cuore e mente seguano la Luce e il Richiamo dello Spirito. Il misticismo è dunque un accadimento e non un proposito: non sono mistico  perché decido di percorrere il sentiero che porta all'Assoluto: percorro il sentiero che mena al Divino e divengo mistico. Francesco, purtroppo per lui, è entrato in un labirinto di lauri e non è stato più in grado di uscirne. Sì, lauri: ha rincorso per tutta la vita la gloria e l'amore terreno per Laura. Ma ha mancato metà dei suoi obbiettivi, ricavandone solo gloria.

Essendo, Francesco, stato il miglior biografo di se stesso, lasciamo che ci dica quando e dove è nato, attraverso una lettera che, all'alba del suo 63° compleanno, inviava al suo amico Giovanni Boccaccio: "Sappi dunque… che io sono  nato nell'anno 1304… al sorgere di Lunedì 20 Luglio, proprio sull'aurora, nella città di Arezzo, nel vico che dicono dell'Orto".  (In Storia Generale della letteratura italiana - Espresso grandi opere, vol. 2° pag. 303).  Uno sguardo attento può scorgere in queste poche parole "ascoltate" simbolicamente tutta la vita futura del Poeta: la sua vita spirituale si muoverà entro l'ambito di un vicolo, una strada senza sbocco alcuno; egli, come una pianta (un lauro?) germoglierà sull'aurora, cioè come un immobile albero darà vita a mille fronde su quel terreno d'aurora, su quell'orto psichico dai confini insormontabili. Francesco entrò nel labirinto in Avignone, nella chiesa di Santa Chiara, ove il 6 Aprile 1327 incontrò Laura (la quale ivi morirà il 6 Aprile del 1348 a causa di un'epidemia). Conta poco che i propositi di Francesco siano quelli di avere in Laura una guida verso il cielo, perché i sensi gli fanno intravedere la felicità terrena, e verso di essa si dirige. I suoi tanti viaggi devono esser visti, o come percorsi fatti all'interno di questo labirinto, allo scopo di trovarne l'uscita, oppure come costante tessitura della tela della gloria che per tutta la vita cercò con i suoi studi e le sue opere in latino e in volgare.  Ma intraprende pure la carriera ecclesiastica (prese solo gli ordini minori), per obbedire ai "comandi" di Agostino che, fornendogli modelli comportamentali, lo invita ad una costante consapevolezza di sé, e gli addita, con l'esempio della sua vita, come un uomo debba combattere passioni e sentimenti, per conservare l'unidirezionalità del proprio animo e della propria volontà diretta costantemente verso il divino. Nel Secretum, il cui titolo latino - De secreto conflictu curarum mearum - suona il segreto conflitto dei miei affanni, è racchiuso il conflitto spirituale petrarchesco  durato tutta la vita: Francesco si è perduto nella selva dei suoi errori, ma ecco che incontra la Verità (un po' come accadde a Boezio nella sua Consolzione della filosofia) nei panni di una bellissima donna, seguita da Sant' Agostino. Con il Santo di Ippona il nostro poeta discute sui peccati per tre giorni. Alla fine, Petrarca, nonostante i buoni propositi di perfezione, deve onestamente riconoscere che amore profano e fame di gloria compromettono ogni sua aspirazione alla purezza. Questa sorta di autoanalisi porterà il poeta a riconoscersi una debole volontà, a constatare d'essere caduto in tutti i vizi capitali, e soprattutto di avere anteposto al desiderio di perfezione, quello di gloria. Quanto all'amore terreno, che difende fino all'ultimo, deve convenire col Santo che esso "Genera la trascuranza di Dio e di se stessi". Su invito di Agostino dovrà dunque "meditare sulla morte e sulla vita". Ed in effetti, tale tipo di meditazione, in lontananza, può essere intravisto nel Canzoniere, laddove, però, la scena è tutta occupata dal suo amore non ricambiato per Laura. La lotta che nell'animo dell'aretino ebbe luogo per tutta la vita fra spirito e materia è  già tutta contenuta nei primi sonetti: …E 'l pentirsi, e 'l riconoscer chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno (Canzoniere, I); Era il giorno che al sol si scoloraro / per la pietà del suo factore i rai, / quando i' fui preso, et non me ne guardai, / Ché i be' vostr'occhi, donna,  mi legaro  (Canz. III); Povera et nuda vai philosophia, / dice la turba al vil guadagno intesa. / Pochi compagni avrai per l'altra via: / tanto ti prego più, gentile spirto, / non lassar la magnanima tua impresa (VII). Cielo e terra in lotta, dunque, e campo di battaglia è l'anima di Francesco, "uom di carne et d'ossa" che del mistico o del filosofo vero ha ben poco, e la cui poesia non può che essere senz'ali. Manca di quella forza d'animo e di quella volontà che aveva "il pastor ch' a Golia ruppe la fronte"   (XLIV). Ma non solo: non riesce a far tesoro delle sue esperienze: i tormenti che tale impossibile amore gli procurano dovrebbero farlo rinsavire e condurlo sulla strada indicata da Agostino, e invece come un'   "Italia, che suoi guai non par che senta (LIII) continua a tormentarsi inutilmente, e continua così a benedire non solo 'l giorno, 'l mese, et l'anno (LXI) in cui fu stregato dagli occhi di lei, ma anche le piaghe che 'nfin al cor mi vanno.  Perde dunque la Filosofia, la saggezza ed anche la virtù perché, abbagliato dalla bellezza terrena, non riesce più a penetrare le cose alte: Tutte le cose di che 'l mondo è adorno / uscir buone da man del mastro eterno; / ma me, che così adentro non discerno, / abbaglia il bel che mi si mostra intorno (LXX).  Francesco passarà decenni a struggersi al suon delle parole, ma sa benissimo - è troppo intelligente per non saperlo - che la sua "navigazione lo porterà a sfasciarsi sugli scogli, e di tanto in tanto prega Dio che lo rimetta nella giusta rotta, come per esempio in LXXX: Signor de la mia fine et de la vita, / prima ch'i' fiacchi il legno fra gli scogli / drizza a buon porto l'affannata vela.  Francesco, tuttavia, ci offre la sua esperienza per non commettere i suoi stessi errori, nel caso volessimo intraprendere la via della perfezione: Questa vita terrena è quasi un prato, / che 'l serpente tra' fiori et l'erba giace; / et s'alcuna sua vista agli occhi piace, / E' per lassar più l'animo invescato. : Voi dunque, se cercate aver la mente : anzi l'extremo dì queta già mai, / seguite i pochi et non  la volgar gente. / Ben si può dire a me: Frate, tu vai / mostrando altrui la via, dove sovente / fosti smarrito, et or se' più che mai (XCIX). **********************************************
Da  questi ultimi versi una cosa appare chiarissima: Petrarca aveva dedicato molto tempo ad osservarsi, a studiarsi, ed era giunto al punto in cui il "testimone" interiore osserva la mente. Solo un attento osservatore della propria psiche può affermare che la mente, prima del giorno estremo, quello della morte, è impossibile vederla quieta. L' Arjuna della B. Gita dice a Krisna più o meno la stessa cosa, e cioè che è impossibile acquietare la mente, ma il Signore Supremo gli propone diversi metodi, diversi Yoga attraverso cui conseguire il Divino. A Francesco viene, attraverso Agostino e quindi il Cristianesimo, proposta la via dell'amore, ma il nostro poeta si lascia soggiogare dalla profanità di esso, piuttosto che dalla sacralità: …ò sì avvezza / la mente a contemplar sola costei, / ch'altro non vede, et ciò che non è lei / già per antica usanza odia et disprezza (CXVI). Questo tipo d'amore alimenta costantemente i pensieri del poeta, e ne sono testimoni  le centinaia di poesie che lo incalzano per decenni. Questo "re" è esclusivo, geloso di tutto il resto, e se ama la natura è perché essa ha celebrato la presenza di Laura:  Amor, che nel pensier mio vive e regna (CXL). Le erbe sono "ben nate" perché sono state da lei calpestate; le spiagge sono belle perché su di esse Laura ha lasciato le sue orme; arboscelli, pallide viole, ombrose selve, contrade, fiumi, hanno tutti buone qualità perché le hanno prese da quel sole che era Laura (CLXII). Ma intanto Laura è morta ed il tempo è volato via. La vita di Francesco volge ormai al termine, ed i suoi dolori, con essa, avranno finalmente fine: Ché ben muor chi morendo esce di doglia CCVII). Eppure, dopo tanti anni egli si sente ancora chiuso nel labirinto in cui entrò il giorno che il suo sguardo si posò sugli occhi di Laura: Mille trecento ventisette, a punto / su l'ora prima, il dì sesto d'aprile, / nel laberinto entrai, né veggio ond'esca (CCXI). La lotta con se stesso continua fino alla fine: da un lato vorrebbe solo l'amore di Laura; dall'altro vorrebbe avere finalmente le tanto sospirate ali perché il suo pensiero salga al cielo, e non avendole ancora ottenute viene preso da un pianto diverso da quello d'amore: …vedendo ogni giorno il fin più presso, / mille fiate ò chieste a Dio quell'ale / co le quali del mortale / carcern nostro intelletto al ciel si leva. Ma infin a qui niente mi releva (CCLXIV). Questo accade perché Francesco ha la ragione sviata dietro ai sensi (id.), la qual cosa gli fa persino provar vergogna: al Cielo antepone la terra: et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio (Id.). Ma la morte avanza a grandi passi ed il tempo della "mietitura" s'avvicina: la vita è stata sciupata ed …esser non si po' più d'una volta (CCCLXI). Ed ecco che, prima della canzone alla Vergine bella (finale del Canzoniere) Petrarca nel sonetto CCCLXV si dispera per un tempo passato speso male, e prega Iddio che almeno la dipartita sia degna: I' vo piangendo i miei passati tempi / i quai posi in amar cosa mortale/  senza levarmi a volo, abbiend'io l'ale, / per dar forse di me non bassi exempi.  / Tu che vedi i miei mali indegni et empi, Re del cielo invisibile immortale, / soccorri all'alma disviata et frale, / e 'l suo difecto di Tua gratia adempi: / si che, s'io vissi in guerra  et in tempesta, / mora in pace et in porto; et se la stanza / fu vana, almen sia la partita honesta.
Se i propositi erano quelli di far di Laura una guida per il Cielo, il fallimento pare sia stato totale. E se i progetti poetici erano  di far di Laura una seconda Beatrice, ci pare di poter affermare che la Beatrice di Dante sta al sole, come la di Petrarca Laura sta alla luna: luce riflessa, figura pesante e ingombrante. L'immenso e inarrivabile edificio della Commedia dantesca è stato costruito grazie ai "progetti" dell'intelletto d'amor sacro, e lo si sente in ogni verso, mentre la casa del Canzoniere ha per fondamenta la sabbia dell'amor profano. Insomma, il Canzoniere  o Rime sparse, che Francesco con titolo latino chiama Rerum vulgarium fragmenta,  è un lunghissimo canto di disperazione. Se dal punto di vista di Agostino esso è una pura perdita di tempo ed un esercizio di frantumazione dell' Io, dal punto di vista freudiano potrebbe essere un momento di sublimazione di una incontenibile libido sessuale. Ma ovviamente, i 366 componimenti che lo compongono - che sono suddivisi in 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali - sono anche poesia. Ma il Petrarca non parla solo d'amore. Politica, morale, etica, classicità in genere sono temi toccati nel Canzoniere. Dobbiamo tener presente che Petrarca era un dotto, un conoscitore dei classici, un umanista, ed anche un topo di biblioteca: fu proprio nel 1345 che presso la Biblioteca Capitolare di Verona scoprì i sedici libri delle lettere scritte da Cicerone fra il 68 e il 44  a.C.; scoperta che gli suggerì il suo epistolario, le sue lettere che divise in tre gruppi: Familiares (familiari), Seniles (senili), Sine nomine  (senza nome). Queste raccolte contengono lettere ai suoi contemporanei ed anche lettere ad "illustri uomini antichi".  Il primo destinatario è lo stesso Cicerone: "ho letto avidamente le tue lettere cercate dappertutto, e trovate laddove meno m'aspettavo…" 
Fra i classici greci, Platone era il preferito, perché la sua filosofia indirizzava verso la perfezione. Aristotele col suo naturalismo non era amato per i suoi fini. Fra i romani, amava Cicerone e gli stoici.  Un capitolo a parte meriterebbe il discorso  Dante-Petrarca, ma l'agilità di questo breve saggio non prevede un approfondimento in tal senso. Diciamo solo, ripetendoci, che l'ombra di Dante aleggia su gran parte dell'opera petrarchesca. Anzi oseremo dire che Francesco sia stato come ossessionato dal fiorentin fuggiasco, dalla sua grandezza, dall'altezza della sua poesia. Non vorremmo esser spietati, ma Petrarca sta a Dante come la forma sta alla sostanza. La sua opera manca di quella profondità, di quella spiritualità, di quella poesia che nella Commedia straripa da ogni verso. La facoltà immaginativa dell'Alighieri è potentissima, la sua opera i suoi versi scolpiscono personaggi, vicende, passioni, emozioni, amori, ecc. La cantilena petrarchesca è mono-tona, ripetitiva, quasi stancante, ossessiva, è come una goccia d'acqua che testardamente vorrebbe colpire lo stesso punto della roccia, ma che si risolve in un ghiacciolo stalattitico. Non vorremmo essere impietosi, ma mentre nell'opera di Dante c'è corrente amorosa che circola, nell'opera di Petrarca tale corrente è assente: vi è un solo polo di corrente.
Ma c'è un motivo, ed è semplice: Francesco è solo un mistico mancato. Se fosse riuscito a contattare la sua vera essenza, come ha fatto San Giovanni della Croce, sarebbe diventato un poeta dello spirito, come il santo spagnolo, come Rumi, come Tagore e tanti altri. Ma nonostante ciò, egli occupa un posto di primo piano nella storia della letteratura italiana. Le sue poesie sono godibili, i suoi versi cantabili, la musicalità del suo verseggiare molto bella. Se manca l' armonia (metaforicamente parlando), è perché l' Io di Francesco, cacciatore di gloria e fama, sta costantemente allo specchio e batte esclusivamente sul proprio tasto. La "sua" Laura, alla fin fine, è solo un pretesto per parlare di sé, del suo dolore, della sua tristezza, del suo amore ferito, della sua solitudine, insomma del suo mondo drammatico. "La sua vera vita fu tutta al di dentro di sé; il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso; Dante alzò Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sé il suo mondo." ci dice il De Santis  nella sua Storia della letteratura italiana ed. Sansoni 1965 pag. 236. Ad una Beatrice sviluppata dal simbolo corrisponde una Laura chiara ed umana. L'amore non è più concetto e simbolo, ma sentimento. "Usciamo infine da' miti, da' simboli, dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce, nel tempio dell'umana coscienza… la sfinge è scoperta, l'uomo è trovato".  Da questo punto di vista, secondo De Santis, quello che potrebbe sembrare un regresso, è invece un progresso: dalla astrattezza siamo passati alla concretezza. Ma poco dopo  ci dice chiaro e tondo che, nonostante il Petrarca s'affanni a voler far apparire il suo non un amore sensuale ma un'amicizia spirituale, "le continue proteste e le dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perché è il corpo di Laura, non come la bella faccia della Sapienza, ma come corpo,  che gli scalda l'immaginazione".  Ma il De Santis spinge la sua analisi fin nello psicologico: "Diresti Laura un modello, del quale il pittore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore, intento meno a possederlo, che a rappresentarlo…Quello che sente è in opposizione con quello che crede. Crede che la carne è peccato; che il suo amore è spirituale; che Laura gli mostra la via che al ciel conduce; che il corpo è un velo dello spirito. E se in questo 'credo' trovasse ogni suo appagamento, avremmo Dante e Beatrice" (Id. 238, 239). Insomma, secondo De Santis, Francesco Petrarca si crea una vita di sogno di ciò che il suo anima desidera "non con la speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di non conseguirlo mai". "L'obbiettivo della sua poesia non è la cosa, ma l'immagine, il modo di rappresentarla". La parola non è più solo segno, ma anche parola stessa. Ed "il verso non è più solo armonia, ma melodia, elemento musicale in se stesso" (Id. 247). Siamo in presenza, conclude De Santis di " poesia di un'anima debole e tenera… di un uomo che svanisce nell'artista… l'arte si afferma come arte e prende possesso della vita".  

Giacomo Leopardi fece un commento al canzoniere, perché riteneva la lingua petrarchesca di difficile comprensione "Questo commento, che io chiamo più volentieri Interpretazione … per lo più  non è altro che una traduzione dei versi o delle parole del Poeta in una prosa semplice e chiara" dice nella prefazione a tale commento (vedi Opere - Sansoni - vol 1° pag. 984, ed. '69).  Secondo Leopardi, Petrarca era poeta molto difficile anche alle persone dotte ed esercitate nella lettura e nella lingua dei nostri scrittori classici (Id. 985). Il recanatese apprezzava molto Francesco Petrarca: "La stima del quale, di giorno in giorno, non ostante i suoi mancamenti che tutti sanno,  cresce in me tanto, quanto ella scema in qualche imbrattatore di fogli che non mi degno di nominare" (id.).   Nelle Operette morali Leopardi nel Dialogo della moda e della morte cita l'aretino: "Moda: anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del  cinque o    dell'ottocento. Morte: ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma insomma levamiti d'attorno…Moda: Io sono la Moda, tua sorella. Morte: Mia sorella?  Moda: Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità? (Op. cit. pag. 88, 89). Tuttavia in  Il Parini - ovvero della gloria,  sempre nelle Operette morali, il Leopardi dice anche  che "A me interviene non di rado di ripigliare nelle mani  Omero o Cicerone o il Petrarca, e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo" (Id. pag. 121). Però aggiunge di essere consapevole della bontà di tali scrittori e delle dolcezze che essi altre volte gli hanno procurato. E basta leggere i Canti per rendersene conto: lingua e musicalità petrarchesche sono presenti in ogni pagina. A tal proposito riporteremo alcuni versi del canzoniere a riprova: Vago augelletto che cantando vai, / ove piangendo,  il tuo tempo passato, …(CCCLIII);  O tempo, o ciel volubil, che fuggendo / inganni i ciechi et miseri mortali…(CCCLV); Mia benigna fortuna e il viver lieto, / i chiari giorni et le tranquille notti / e i soavi sospiri e 'l dolce stile / che solea resonare in versi e 'n  rime…(CCCXXXII); Ahi dispietata morte, ahi crudel vita! / l'una m'à posto in doglia, / et mie speranze acerbamente à spente…(CCCXXIV); Standomi un giorno solo a la finestra, / onde cose vedea tante, et sì nove (CCCXXIII); Movesi il vecchierel canuto et bianco…(XVI); Quando la sera scaccia il chiaro giorno, / et le tenebre nostre altrui fanno alba, / miro pensoso le crudeli stelle (XXII); Nel dolce tempo della prima etade (XXIII);  Nave da l'onde combattuta et vinta (XXVI); Veggendosi in lontan paese sola / la stanca vecchiarella pellegrina / raddoppia i passi et più et più s'affretta…quando vede il pastor calare i greggi / del gran pianeta al nido ov'egli alberga (L);  Di pensier in pensier, di monte in monte (CXXIX);  e ci fermiamo qui per non annoiare il lettore, che per conto proprio può, leggendo il Canzoniere del Petrarca, toccare con mano quanto da noi  sottolineato.
Nel saggio Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, Leopardi fa notare come nel tempo in cui visse il Petrarca non c'era né psicologia né analisi né scienza né la stampa; il nuovo mondo era sconosciuto,  le credenze erano peggio che puerili, e tutta l'europa era barbara. La mente dell'uomo non si era per anche ripiegata sul cuore, non ne aveva notato i lamenti;  cosa che avvenne nel periodo di Dante e Petrarca.
Il nostro saggio termina qui, e come tutti gli altri dedicati a personaggi altrettanto illustri, altro non vuole essere se non un invito a leggere il Canzoniere di Petrarca, e perché no i Trionfi e qualche lettera, onde poter meglio comprendere la nostra storia la nostra lingua, e soprattutto l'animo nostro.

Grazie, Natale Missale



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